«Io, poeta operaio da sempre»

Lunedì 11 Febbraio 2019
«Io, poeta operaio da sempre»
L'INTERVISTA
«La poesia mi è entrata dentro da bambino, mia madre ci leggeva sempre versi di Dante e di Leopardi e piangeva quando recitava a memoria Breus di Giovanni Pascoli». L'ultima traduzione delle poesie di Ferruccio Brugnaro arriva dalla Cina. Le hanno già pubblicate in venti lingue. Ha incominciato con i volantini ciclostilati negli anni dell'«autunno caldo» al Petrolchimico di Porta Marghera, oggi è nelle antologie di mezzo mondo. Sui murales di Orgosolo sono riprodotte due sue poesie sulla fabbrica. Di lui Andrea Zanzotto ha scritto: Nella poesia di Brugnaro appare una realtà ambientale che ha raccapriccianti affinità con quella della guerra: è la realtà della fabbrica Ci sono in quei versi le mattine di livido inferno dopo i turni, i fiumi e i rumori che disintegrano, le morti a stillicidio, l'indefinibile e inarrestabile trasformazione degli uomini in cosa.
Nato a Mestre, 82 anni, Ferruccio Brugnaro abita a Spinea. Decine di volumi, un passato di operaio e di sindacalista alla Montefibre-Montedison. Due figli: Luigi, sindaco di Venezia, e Gabriele. Ha dedicato alla moglie Maria, insegnante, la raccolta Ritratto di donna. Lei sorride: Si è accorto di me quando è andato in pensione.
Dove è cresciuto Ferruccio Brugnaro?
«In una famiglia sottoproletaria, io ero il penultimo di dieci figli: mio padre ha lavorato alla Montecatini da quando era ragazzo, mio fratello era alla Breda, un altro alla Vetrococke. La vita era molto dura negli anni della mia infanzia che ha coinciso con la guerra: un fratello è stato deportato in Germania in un campo di concentramento, un altro era militare, un altro ancora è caduto dalla teleferica e si è salvato per miracolo. Abitavamo a Zelarino, papà coltivava un orto di 400 metri quadri, bisognava arrangiarsi con tutti quei figli. Ho frequentato l'Istituto Veneto di avviamento al lavoro e nel 1954 ero già in una piccola fabbrica a Porto Marghera che produceva chiodi e reti metalliche: 12 ore al giorno per 5 mila lire a settimana».
Come è stata la scoperta della fabbrica?
«In campagna si moriva di fame, in fabbrica di ambiente. C'erano macchinette per costruire chiodi che spruzzavano olio dappertutto, si passava il materiale su vasche di zinco bollente, c'erano nuvole dense di fumo dentro le quali lavoravi. Settanta donne e cinquanta uomini, io avevo 18 anni e molti li vedevo già anziani, ma non avevano nemmeno 50 anni, tanti erano già malati. C'era un padrone autoritario che sbraitava contro tutti e apostrofava le donne in maniera brutale, uno volta ho avuto il coraggio di affrontarlo: tutti hanno pensato che mi avrebbe licenziato, non lo ha fatto. Credevo che le cose sarebbero state diverse nella grande fabbrica, ma quando nel 1958 passo al Petrolchimico mi accorgo che il sistema è lo stesso, anzi qui tu diventi anonimo. Ma penso anche che mi rimane la scrittura e la uso. La mia vecchia fabbrica, dove ho lavorato 38 anni, ora non esiste più, cancellata. Andavo in bicicletta da Spinea fino alla stazione di Mestre e da lì in pullman. Andare dentro in barena con vento e pioggia era da rabbrividire. Dopo anni ho avuto il Motom che era un motorino leggero».
Nel 1965 incomincia a distribuire i primi ciclostilati di poesia nelle scuole e tra i lavoratori. Qualcosa che ricorda i fogli volanti dei cantastorie. Ma non è stato così facile come sembra?
«Nel 1964 per la prima volta vengo eletto nella commissione interna e l'azione sindacale e la scrittura crescono insieme, all'inizio è il fogliettino che faccio leggere ai compagni, poi affiggo le poesie alle bacheche, poi vedo che gli operai le ciclostilano e le distribuiscono con i volantini. Ricordo il giorno in cui è stata diffusa la prima poesia, a metà degli Anni '60, una mattina di marzo, bellissima, e io sentivo che avveniva qualcosa di speciale, che i miei versi rafforzavano la lotta comune. I leader sindacali non apprezzarono, la vedevano come una cosa sentimentale. Mi rispettavano perché mi vedevano in azione tra picchetti, scioperi e manifestazioni con la polizia di fronte. Non mi sono mai tirato indietro, io sono uno che ha preso tante botte a Marghera dai poliziotti!».
Poi le sue poesie sono diventate canzoni e anche slogan sindacali
«Piano piano, anche chi mi aveva ostacolato ha incominciato a capire che quei foglietti valevano quanto uno sciopero. E la critica ha incominciato a dire che non si era mai visto che un operaio dal suo posto di lavoro si esprimesse in versi in maniera così forte. E un cantautore famoso come Gualtiero Bertelli ha musicato alcune poesie e ne ha fatto canzoni che tutti cantavano nelle manifestazioni. Sono rimasto traumatizzato quando ho visto un operaio che perdeva le dita nella macchina dei chiodi e persone trascinate dai macchinari e altre che perdevano braccia e gambe. Oggi si continua a morire perché è stato allentato il controllo. La poesia non è un oggetto che si vende, è la vita stessa».
Cosa ha rappresentato il Sessantotto a Porto Marghera?
«Come movimento operaio eravamo partiti almeno quattro anni prima, si riunivano assemblee affollate vicino alla chiesa di Cristo Lavoratore, il turno che usciva dal lavoro veniva in blocco. Nella sede della Cisl in via Fratelli Bandiera ho ripetuto l'esperimento, la gente aveva voglia di discutere, chiedeva dignità Dovevi faticare a spiegare che bisognava fermarsi, scioperare, per avere diritto a vivere meglio: c'erano ammalati, vedevi la gente sparire e non tornare più. Entravi in fabbrica e non riuscivi a respirare per l'anidride solforosa, tutti tossivano. Una volta ho fatto fermare gli impianti perché l'aria era irrespirabile, mi hanno minacciato di licenziamento, chiamato e interrogato come un pericoloso criminale. Allora la gente non pensava di potersi ammalare sul lavoro, la fabbrica era la vita».
La salute in fabbrica era e resta un argomento scottante
«E fuori della fabbrica era peggio, ero visto come un sobillatore, e come me Gabriele Bortoluzzi che per quei veleni c'è morto e ha lasciato una Fondazione che combatte a nome suo. Non siamo stati capaci di tacere, Bortoluzzi appena in pensione mi dice che quelli del suo reparto sono quasi tutti morti, che si sospettava una forma di tumore legato alla produzione. Stava raccogliendo le cartelle cliniche per portarle al magistrato, eravamo già negli Anni '90. Eravamo in pochi a dire queste cose, purtroppo la realtà ci ha superati. C'era bisogno di lavorare, restare senza lavoro era una disgrazia, era la fame. Pensate all'Ilva dove la gente doveva scegliere tra morire di fame o morire di cancro. Sono stato a Taranto a distribuire le mie poesie e ho visto una coltre rossa dappertutto, sui davanzali, sulle porte. Ho chiesto cosa fosse, mi hanno risposto: E' la fabbrica. Il processo per i morti al Petrolchimico ha riconosciuto che il cloruro di vinile era cancerogeno, ma è stato pagato a un prezzo troppo alto».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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