IL PERSONAGGIO
«Quella notte di settembre del 1960 a Roma sentivamo di poter

Lunedì 22 Ottobre 2018
IL PERSONAGGIO
«Quella notte di settembre del 1960 a Roma sentivamo di poter entrare nella leggenda delle Olimpiadi. Eravamo due veneti, io e Vallotto, e due lombardi, Vigna e Arienti. Il nostro quartetto d'inseguimento aveva anche fatto il nuovo record mondiale su pista ed eliminato la favorita Francia, adesso rimanevano i tedeschi, gente che non molla mai. Si scivolava con le ruote che erano di seta e la pista era bagnata per l'umidità; i tubolari posteriori si asciugavano con un panno. Ogni volta che c'era uno svantaggio il mitico commissario tecnico Guido Costa sollevava il dito e mi ordinava di tirare, lo fece a tre giri dalla fine e i ventimila spettatori del Velodromo si alzarono e incominciarono a incitare. Quella notte è stata la più bella della mia vita. Il giorno dopo ero in giro per Roma sulla Seicento multipla di zio Ugo che molti scambiavano per un taxi. La stessa auto con la quale siamo arrivati in trionfo a Mogliano».
Alle Olimpiadi di Roma il ciclismo diede all'Italia cinque ori su 13, fu lo sport più medagliato, più del pugilato che viveva la stagione di Benvenuti e De Piccoli. Il velodromo Olimpico non c'è più, è stato demolito.
Franco Testa padovano di Cadoneghe era il leader del quartetto d'oro. Oggi a 80 anni vive a Mogliano, uno dei quattro figli è sacerdote. E' in pensione come macellaio, mestiere che ha fatto per tutta la vita. Aiuta da volontario gli anziani che vanno in ospedale per fare terapia, li accompagna, li aspetta. Medaglia d'oro a Roma '60; argento ai Giochi di Tokio '64; argento ai mondiali di Parigi nel '64. Un libro per raccontare la sua storia: Volare, scritto con Lucio Carraro.
Quando è incominciata la passione per la bicicletta?
«Ero un bambino un po' inquieto, ma con un grande amore per la bicicletta, si facevano gare a Torre, il paese di Bianchetto che ha fatto grande il nostro tandem. Correvamo attorno alla chiesa su una specie di pista in ghiaino, attenti a non cadere perché se tornavi a casa con le ginocchia sbucciate le prendevi. Una volta con mio fratello Luciano siamo scappati dal collegio, che era ai piedi del Grappa, la fuga è durata una notte. Non volevo più andare a scuola e volevo fare il macellaio, mi sembrava un bel mestiere. Poi mio padre Agostino ha aperto un forno a Mogliano, avevo 14 anni e ci ho rimesso anche un dito nell'impastatrice: dalle tre del mattino a infornare, dopo a distribuire il pane in bicicletta».
Da bambino ha visto la guerra, cosa ricorda?
«Le bombe che cadevano. Una volta a Caltana di Santa Maria di
Sala gli aerei hanno bombardato una stalla, le bestie sono morte bruciate, ma c'era fame e anche bruciate erano buone lo stesso. Ricordo ancora il suono delle sirene di notte, quando suonavano correvamo a nasconderci dentro una grande buca. Io la guerra me la ricordo così, come un campo pieno di buche».
Le prime gare?
«Abbiamo iniziato con mio fratello nel gruppo del Mogliano nel 1956 e quello stesso anno con la squadra dell'Oratorio Don Bosco abbiamo corso il Giro d'Italia Cicloturistico sponsorizzati dalla Campari Soda, 14 tappe, 2000 chilometri, primi nel GP della montagna. L'anno dopo ero nella Ciclisti Trevigiani. Io ero puro istinto, ero testa e gambe, nessuno mi aveva insegnato cosa fare. Alla Trevigiani, oltre alla divisa, mi hanno dato anche la bicicletta, una Piave. E ci seguivano per l'alimentazione: riso in bianco, bistecche e olio di fegato di merluzzo che savea da freschin».
Poi il salto di qualità e i primi titoli italiani
«Un giorno in macelleria, mentre stavo facendo salami, sono arrivati Mario Vallotto con Sergio Beghetto e Severino Rigoni che era il direttore sportivo della Ciclisti Padovani: mi offrirono uno stipendio di 50 mila lire, una cifra mai vista. Ho incominciato subito a fare attività su strada e su pista, al Velodromo Monti di Padova c'erano riunioni ogni sera fino a mezzanotte. Qualcuno di noi vinceva sempre, era una società piena di campioni: Beghetto e Bianchetto, Vallotto e Leandro Faggin che era stato oro ai Giochi di Melbourne nel '56. Il primo anno, era il 1959, ho vinto il campionato italiano, al Vigorelli di Milano ho battuto il compagno e amico Vallotto».
L'anno dell'oro, il 1960?
«In vista delle Olimpiadi di Roma sono stato selezionato come PO, probabile olimpionico. Ma il mio 1960 non era iniziato bene: ai mondiali di Lipsia ero dato per favorito, però contro il modesto tedesco Mangol, mi ricorderò sempre il nome finchè avrò gli oci verti, mi si molla il cinturino fermapiede. Partenza da ripetere, ma il tedesco se ne frega e si mette a girare e i giudici non dicono niente. Reclamo respinto e verdetto incomprensibile: nella finale per il terzo posto si verificò lo stesso incidente e la partenza fu ripetuta! Mi misi a piangere: Non corro più, non corro più, questo non è sport. Non ero nemmeno certo di andare alle Olimpiadi, ma avevo un supporter speciale. Quando ho vinto la mia prima maglia tricolore era venuto a trovarmi Fausto Coppi che stava organizzando la nuova squadra per la Bianchi. Mi disse: Dopo le Olimpiadi hai deciso cosa farai? Il prossimo anno verrai con me alla Bianchi. Avevo addirittura firmato un impegno, testimone il meccanico di Coppi, Pinella detto Pinza d'oro. Il destino fu crudele col Campionissimo, morì all'inizio del 1960 ucciso dalla malaria non riconosciuta. Tutta la rabbia che avevo l'ho esplosa negli allenamenti per Roma, avevo una forza bestiale».
Cosa si pensa sul podio dopo la vittoria?
«Sono momenti in cui non si pensa a niente. Prima c'era emozione, paura di perdere perché può succedere qualcosa, ero anche il capitano della squadra. Eravamo stipendiati, 60 mila lire al mese, la paga di un operaio, più i premi. L'oro olimpico ci portò anche una medaglia del Coni e un cronometro Zenith d'oro. E una Fiat 500 che costava mezzo milione e alla quale il Coni aggiunse un assegno circolare di 475 mila lire. Il giornale romano Il Tempo ci ha regalato una medaglia d'oro pesante un etto. La Bianchi tornò alla carica: Anche se Fausto non c'è più noi ti vogliamo in squadra. Ma la Federazione mi bloccò: per Tokio nel '64 puntavano su di me».
E a Tokio come è andata?
«Eravamo io, Luigi Roncaglia emiliano, Mantovani e Rancati lombardi. C'era sempre tanta acqua in una pista che era molto più alta rispetto a quella di Roma. In finale siamo contro al Germania, a tre giri dalla fine Rancati non ne ha più e si ferma; a un giro e mezzo fora Roncaglia, in due reggiamo ma perdiamo l'oro per 7 centesimi di secondo».
Dopo le Olimpiadi è cambiata la sua vita?
Ho continuato ad andare a lavorare, ho fatto 50 anni dietro il bancone della macelleria. Da professionista ho corso nella Termozeta con Bianchetto e Beghetto, ma soltanto per due anni, fino a quando mia moglie mi disse: Se ti compro una bambina smetti di correre?. Avevo tre figli maschi, la mia carriera è finita nel 1966».
Gino Bartali era suo amico?
«Veniva spesso a trovarmi con la moglie Adriana. Era una persona stupenda. Abbiamo saputo soltanto dopo quello che aveva fatto per salvare durante la guerra la vita di molti ebrei. Non ne ha mai parlato, non si è mai vantato di aver rischiato la vita, certo la moglie sapeva tutto ma ha mantenuto il segreto. Diceva sempre L'è tutto sbagliato Madonna Bona. Era sempre disponibile per aiutare vecchi compagni sfortunati».
Cosa pensa del ciclismo oggi?
«Molte cose non le so, c'è il doping che non mi piace niente, non si sa quanto uno valga davvero. Nibali per me è un grande, è completo, va in salita, va a cronometro. Ho nostalgia di Pantani che è stato un grandissimo, quando partiva non ce n'era per nessuno».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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