«E l'Italia ripartì, con me»

Lunedì 20 Novembre 2017
«E l'Italia ripartì, con me»
L'INTERVISTA
«E' successo dopo quasi sessant'anni ed è stata una mazzata. Tutti pensavano che sarebbe stato facile perché l'Italia è l'Italia e la Svezia non vale la Nazionale azzurra. Ma il nostro calcio è da tempo in crisi: non è stata una sorpresa. Possiamo farcela, come nel 1958, quando l'Irlanda del Nord ci escluse dai mondiali in Svezia. L'Italia è ripartita da zero puntando sui giovani: in dieci anni siamo passati, è vero, per la Corea ma anche per un titolo Europeo e per il Messico di Italia-Germania 4-3. Oggi il calcio è diventato quasi solo un affare da molti miliardi di euro e ogni sconfitta rischia di diventare pure una crisi economica nazionale. Ma le lacrime di Buffon per la mancata qualificazione mi fanno credere che forse non tutto è finito».
Nel 1958 si trovò un colpevole all'italiana: pagarono gli oriundi, dissero che erano responsabili per la mancanza di giovani di talento. Si trattava di giocatori come Schiaffino, Montuori, Ghiggia, Da Costa: alla loro scuola erano cresciuti campioni come Rivera. Adesso dicono che è colpa dei troppi stranieri nel campionato. Siamo più portati all'autocommiserazione che all'assunzione di responsabilità. In Italia le dimissioni restano un istituto sconosciuto.
Nel 1958 il padovano Bruno Nicolè fu il centravanti nella prima Nazionale che doveva risorgere, l'autore del primo gol per dimenticare l'eliminazione dai mondiali in Svezia.
Il più giovane giocatore in azzurro e anche il più giovane goleador: cosa ricorda?
«Ricordo tutto di quel 9 novembre 1958 allo stadio Colombes di Parigi, avevo 18 anni e vestivo la maglia della Nazionale, come posso dimenticarlo? Fu come un sogno. È stato Gipo Viani a volermi, avevo accanto Boniperti, in porta c'era Lorenzo Buffon. Il primo gol, del pareggio, lo feci di testa, il secondo del momentaneo vantaggio da fuori area, di destro. Ho anche colpito un palo! Era una Francia fortissima, appena arrivata terza ai mondiali di Svezia; c'erano Fontaine e Kopa, segnarono entrambi e finì 2-2. Gianni Brera scrisse: Habemus Piolam-Ni-co-lè. Da montarsi la testa. A volte i segni ritornano nel nostro calcio: la Svezia che ci ha negato due mondiali, un Buffon in porta! Alla fine della partita si avvicinò un signore con un biglietto scritto in stampatello: Nicolè i minatori veneti che vivono in Francia ti ringraziano. Mi venne da piangere».
Bruno Nicolè, 77 anni, insegnante in pensione, vive ad Azzano X e oggi affronta la convalescenza dopo una brutta caduta. Per i bambini italiani tra gli Anni '50 e '60 era un idolo, tanto popolare che il Quartetto Cetra, allora famosissimo, gli dedicò nel 1959 una canzone: Quanto prima al muro attacco le foto di Levratto e Nicolè. Ohohoh che centrattacco!. Ha appena scritto un libro col figlio Fabio, intitolato semplicemente Bruno Nicolè (Berica Edizioni) e che sarà presentato questa sera in Comune a Padova.
A 16 anni in serie A col Padova, a 17 in bianconero con la Juventus, a 18 in Nazionale, tre scudetti e due Coppe Italia in cinque anni, una nomination al Pallone d'Oro, il più giovane in un attacco capace di mettere a segno 332 gol in quattro campionati: Nicolè-Boniperti-Charles-Sivori-Stacchini.
Ha smesso a 27 anni perché stanco del calcio. Anche Antonio Cassano da poco ha lasciato per lo stesso motivo
«Cassano è un ottimo giocatore, forse anche lui ha smesso perché ha capito che il calcio non è tutto. Molti giocatori pensano che la carriera sia infinita e di colpo scoprono una realtà diversa. È il momento più difficile, molti non ce la fanno, hanno pensato solo al calcio, non immaginano che cosa li aspetta. Qualcuno si è ucciso, qualche altro è rimasto un ragazzo anche da vecchio. Nel calcio o si è dentro o si esce del tutto. Mi ero stancato, forse avevo iniziato troppo presto, la Juve era il massimo ma anche il punto d'arrivo. È stata la scelta più difficile, la domenica all'ora della partita non sapevo cosa fare. Ho preso il diploma di ragioniere e mi sono iscritto all'Isef di Napoli anche grazie ai meriti sportivi, essere stato azzurro conta qualcosa. Ho insegnato educazione fisica nelle scuole per più di trent'anni.
Come è iniziato?
«Sono cresciuto a Padova nell'oratorio della Sacra Famiglia, mia madre Teresa aveva una latteria, mio padre Carlo un'edicola in centro città: giornalaio per me è una parola buona, come fornaio. Mi perdevo nelle pagine de Il calcio e il ciclismo illustrato e facevo la raccolta di figurine dei calciatori, se mi avessero detto che sarei diventato una figurina mi sarei messo a ridere.
Quando ha esordito in serie A?
«All'Appiani il 10 febbraio 1957 contro l'Inter di Ghezzi, Skoglund e Lorenzi e abbiamo vinto 3 a 2. Nereo Rocco mi ha schierato a sorpresa, non avevo ancora 17 anni e ho giocato 10 partite che sono bastate perché la Juventus mi volesse. L'Appiani per me era la chiesa, avevo rispetto del campo come se fosse la Basilica del Santo. Quando giocava la Juve lo stadio era stracolmo, la gente si sedeva a tre metri dal bordo del campo. Concetto Lo Bello arbitrava con i tifosi a un passo e non si scomponeva».
Il campo più emozionante?
«Il Bernabeu di Madrid, per la prima volta ci ho giocato con la Nazionale juniores nel 1955, in squadra c'erano Bolchi, Giacomini, Fascetti, Vieri in porta. Poi sono tornato in Coppa Campioni contro il Real di Di Stefano e Puskas. Siamo stati l'unica squadra che aveva vinto a Madrid, segnò Sivori davanti a 120 mila spettatori. Poi abbiamo perso la bella a Parigi».
La grande Juve macchina da gol?
«E Mattrel in porta e Ferrario al centro della difesa e Cervato terzino... Non c'era un ruolo che non fosse coperto da un grande giocatore. Era una squadra fortissima, da te volevano fatti e basta. Nella Juve o resti ad alti livelli o fai le valigie: la Juve era ed è per i grandi obiettivi, difficilmente ti aspetta. Io mi sono adattato a giocare all'ala anche se dentro la testa ero un centravanti, ma ero il più giovane e stavo zitto. Oggi sarebbe improponibile un calcio con quattro punte come allora: Charles aveva doti atletiche non comuni; Sivori era la fantasia in campo; Boniperti era l'università del calcio».
Il calcio le ha dato molto?
«Bisogna prendere le cose buone quando arrivano: mi è capitato di essere stato chiamato fuoriclasse e anche grande meteora. Eppure, oltre agli scudetti, una cinquantina di gol li ho fatti e ho giocato e segnato in Nazionale. Uno strappo muscolare mi ha impedito di partire per i mondiali in Cile nel '62. Ma o hai parabole lunghe come Boniperti e Rivera, o devi decidere cosa fare da grande. Non ho rimpianti, mi arrivano ancora lettere dei tifosi, ma non vado più allo stadio da tanti anni. La differenza tra il mio calcio e l'attuale non è soltanto quella tra il bianco e nero e il colore».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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