«Da sempre amo i matti i normali sono noiosi»

Lunedì 20 Agosto 2018
«Da sempre amo i matti i normali sono noiosi»
L'INTERVISTA
«Ho sempre avuto in mente i matti. Già da ragazzo pensavo che mi sarei dedicato alla pazzia. Le faccio una confessione: durante la mia infanzia, nel dopoguerra, il campanile era il nostro posto dei giochi, seguivo il catechismo e mi avevano colpito un paio di persone che avevano quelle che si chiamavano manie religiose, si facevano il segno della croce continuamente. Dicevano che c'entrava il Demonio. Ho sempre amato i matti; i normali, e ce ne sono pochi, non mi hanno mai interessato, sono noiosi».
Vittorino Andreoli, 78 anni, veronese, è psichiatra di fama internazionale. Studioso della follia, docente universitario, è autore di libri di successo tra i quali La terza via della psichiatria. Sta per uscire Homo stupidus stupidus: l'agonia di una civiltà (Rizzoli, 260 pagine, 19 euro).
I primi ricordi di Vittorino Andreoli?
«Sono nato il 19 aprile del 1940, quindi ho fatto in tempo a entrare nella guerra. Abitavo a Verona davanti a una chiesetta delle Clarisse e vicino al Teatro Romano e ricordo distintamente i bombardamenti del '43, mia madre che un pomeriggio mi prende per mano e si mette a correre verso il rifugio buio. Siamo dovuti sfollare nelle colline del Lago di Garda, dai nonni materni. Mio padre Luigi era un antifascista e la terra dei nonni confinava con l'Eremo della Rocca del Garda. Una domenica dopo la Messa si è avvicinata una persona vestita di bianco, col cappuccio, mi ha preso in braccio e io mi sono messo a piangere: sotto il saio c'era mio padre, si nascondeva tra i monaci».
Ma lei non doveva fare il geometra e lavorare con suo padre?
«Il papà per me è il mio eroe. Aveva un'impresa edile che durante il fascismo era andata in crisi perché lui non aveva la tessera del partito. Ma nel dopoguerra, con la ricostruzione, si era ripreso bene e sognava che potessi affiancarlo, mi vedeva geometra. Sono sempre stato un secchione, prendevo voti alti in tutte le materie. Mi accorsi, però, che non era la mia strada, ma avevo un tale rispetto per il papà che ho voluto finire gli studi. Intanto, avevo già incominciato a studiare per conto mio la filosofia, il latino e il greco. La filosofia con Walter Peruzzi che era alla Cattolica di Milano e poi sarebbe stato tra i fondatori del Partito Marxista Leninista d'Italia. Avevo questo doppio binario: andavo già nei cantieri di mio padre che curava la ricostruzione dei lavori per i due ponti della città, quello Romano e quello Scaligero, e studiavo per il diploma e anche in privato. Sono stato il primo della mia scuola e lo stesso giorno dissi a mio padre: Non voglio fare il geometra, mi piacerebbe molto fare il medico e in particolare vorrei dedicarmi ai matti. Sono sicuro che sia stata per lui una grande delusione, si limitò a dire: Allora chiuderemo la nostra impresa. Che finì, infatti, con la sua morte. L'ultima opera che ha fatto è stata la mia casa in campagna. Però non mi contrastò. Ho preso la maturità scientifica con 10 in tutte le materie, poi sono entrato per merito al collegio universitario Don Mazza di Padova».
Fu espulso dall'Azione Cattolica per aver letto Marx?
«Ero responsabile dei giornali studenteschi della diocesi e Peruzzi era il delegato degli Aspiranti. Si discuteva molto di politica, il Pci era forte e Peruzzi disse che per capire bisognava leggere il Capitale. Solo che ci era vietato leggere le opere di Marx se non mediate da autori cattolici. Abbiamo inutilmente chiesto la dispensa al vescovo, così un Natale siamo andati sulle Torricelle in casa di un amico che aveva tutti i libri di Marx e per venti giorni abbiamo letto e discusso. Al ritorno abbiamo trovato la lettera di espulsione dall'Azione Cattolica».
Quando ha scoperto il matto che sarebbe diventato un importante pittore?
«Qui si riallaccia tutta la mia vita. Prima di iscrivermi all'università, chiesi a Cherubino Trabucchi direttore del manicomio di San Giacomo alla Tomba di farmelo visitare. I matti non avevano un nome, li chiamavano per livello, se uno era al quinto dopo c'era solo il cimitero: all'ultimo livello erano tutti legati e gridavano. Adesso Andreoli penso che lei non farà lo psichiatra!, mi disse il professore. No, adesso sono sicuro che lo farò perché mi sono reso conto che qui posso fare qualcosa di utile. Poi mi portò a vedere una casetta dove c'erano sei donne e sei uomini che dipingevano su un tavolo: Questo è l'atelier di pittura fondato nel 1957, da oggi di questo si occupa lei. Era il lascito di un pittore inglese, ex ufficiale, che ogni tanto ricorreva alle cure dell'ospedale e che aveva sposato Ida Borletti. La coppia arrivava in Roll's Royce e il direttore l'aspettava in gran pompa. Il pittore si chiamava Carlo Zinelli e aveva un grande talento. Da quel momento nasce in me questa idea che ho ancora in testa. Non le dirò mai che sono bravo, quelli che si montano la testa io li curo».
Che fine ha fatto Carlo Zinelli?
«Oggi è considerato dalla critica un grande nome del Novecento e le sue opere sono battute alle aste per cifre importanti. Un anno dopo ho portato i suoi quadri a Parigi da Dubuffet e da Breton che pochi sanno era uno psichiatra. Quando ha esposto alla Guggheneim di Venezia ho pagato il biglietto. Era una commozione, lo portavo la domenica a pranzo a casa mia. Appena laureato ho fatto la domanda per fargli riconoscere la follia da guerra, si era ammalato sul fronte albanese. Ottenne la pensione e anche 30 milioni di arretrati e da quel momento spuntarono i parenti. È morto di tubercolosi non ancora cinquantenne».
Perché oggi si parla tanto della depressione?
«Quando ho iniziato la depressione interessava il 5% della popolazione, oggi il 14%. Per la malattia mentale bisogna considerare il fattore biologico, la personalità e, infine, l'ambiente nel quale si cresce. In questi anni non c'è stata una mutazione genetica dell'uomo, l'aumento della depressione è dovuto alla società. Per esempio, la depressione nel vecchio era rara, il vecchio era rispettato; erano pochi, oggi sono molti e pesa la condizione in cui sono tenuti. C'è anche una certa paura di ammettere la depressione che pure è la più umana delle malattie: il dolore del depresso non è fisico, ma esistenziale. Si ha percezione di non saper più fare nulla e il senso di colpa per non sapere fare. È la vera tragedia umana, c'è la disperazione».
C'è sempre più violenza e anche un emergente razzismo
«Noi sappiamo odiare e siccome siamo molto egocentrici finiamo per odiare tutti quelli che non ci sostengono o non sono dalla parte nostra. Oggi è diffuso l'odio contro un'ampia fetta di persone che arrivano nei nostri territori e che vediamo come degli occupanti, dei barbari. Però non sono né barbari, né tutti degli occupanti. Ma non parlerei di razzismo. Adesso domina la cultura del nemico che vuol dire questo: chiunque io incontro, fino a prova contraria, è uno che mi fa del male. C'è un odio diffuso, fa paura».
Nel suo nuovo libro parla di uomo stupidus stupidus?
«Parlo di stupidus che contrappongo a sapiens; la specie cui oggi apparteniamo è diventata incomprensibile: ci portiamo via il posto, rubiamo all'altro, non paghiamo le tasse, abbiamo abbattuto tutti i principi. Siamo arrivati a una civiltà in cui la ragione controllava gli istinti, alla cultura della saggezza, e adesso regrediamo. L'uomo di oggi è distruttivo, può chiamarsi sapiens uno che uccide moglie e figli? Siamo all'usa e getta dei sentimenti. Non c'è più il senso della storia personale, della storia della famiglia. Non c'è più nemmeno il rispetto per gli dei».
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci