ANNIVERSARIO
Ore 2 del mattino del 24 ottobre 1917, piove a dirotto. È Caporetto.

Martedì 24 Ottobre 2017
ANNIVERSARIO
Ore 2 del mattino del 24 ottobre 1917, piove a dirotto. È Caporetto. Non è stata una sconfitta, è stata una disfatta. Non è stata una ritirata strategica, è stata una rotta di oltre un milione di uomini inseguiti da un altro milione di nemici per centinaia di chilometri, tanti ce ne sono tra l'Isonzo e il Piave.
L'Italia unita per la prima volta è invasa, centinaia di migliaia di profughi su strade sterrate coperte da fiumi d'acqua e fango, ai bordi come pietre miliari carcasse di animali, cadaveri di vecchi e bambini, camion abbandonati, cannoni gettati nelle discese. Eppure è proprio in quel momento che l'Italia si ricompone, scarica il peggio, ricambia la classe dirigente dell'esercito e della politica, trasforma la disfatta nella più grande vittoria della sua storia.
Ma non è rimasta la Vittoria nella nostra identità, quasi ci riconoscessimo più nelle sconfitte che nelle vittorie. È rimasto Caporetto che è diventato un modo di dire: La Caporetto del calcio La Caporetto della politica. Il dizionario De Mauro spiega: Grave disfatta, fallimento totale.
LA DISFATTA
L'Italia fu a un passo dalla fine, anche se il disastro poteva essere evitato perché il Comando era a conoscenza dei piani del nemico, ma Cadorna l'11 ottobre da Vicenza scrive al governo: è un bluff nel quale i nostri nemici sono maestri. Bluffa anche lui, assicura di aver dato tutti gli ordini per far fronte a un attacco improvviso. Gli italiani sono così tranquilli che il generale Luigi Capello il 20 ottobre va a Padova a farsi curare la nefrite. Comanda la II Armata, un milione di uomini a presidio del fronte isontino. Il generale Pietro Badoglio, al quale è affidato il settore tra Plezzo e Tolmino, ritiene impossibile un'offensiva nemica.
Un mese prima gli austriaci avevano fatto arrivare uno stratega tedesco che aveva preso il comando delle operazioni e individuato il punto debole dello schieramento italiano quasi in riva all'Isonzo, proprio tra Plezzo e Tolmino. La Germania ha appena lasciato il fronte orientale dopo che la Russia si è ritirata dalla guerra per lo scoppio della rivoluzione. Le truppe d'assalto hanno viaggiato solo di notte, i soldati tedeschi hanno indossato divise austriache. I reparti di montagna guidati da Erwin Rommel, 26 anni, in cinque notti hanno percorso a piedi 63 miglia.
I NEMICI
Quella notte l'artiglieria austriaca colpisce con precisione tutti gli obiettivi nella zona di Tolmino. A Plezzo ancora col buio un battaglione tedesco con bombole a fosgene in mezzo minuto stermina i 600 fanti della brigata Friuli che sono sorpresi dalla morte appoggiati alla parete della trincea, il fucile tra le ginocchia.
I nemici dilagano oltre le prime linee, le prendono alle spalle, ne impediscono i collegamenti. Qualche mese dopo toccherà agli inglesi in Piccardia: il solito von Below, lo stesso di Caporetto, li spingerà indietro di 70 chilometri con 180 mila perdite su 200 mila uomini.
Non c'è niente che provochi panico più della sensazione di essere accerchiati e isolati. Nella paura si incomincia a ripiegare, poi a ritirarsi, infine a fuggire. Gli alti comandi italiani stentano a capire la situazione, von Below invece non sbaglia un colpo. La ritirata della II Armata da Caporetto diventa una rotta tra decine di migliaia di caduti spesso sacrificati inutilmente e trecentomila prigionieri. I capi perdono la testa e lasciano i soldati senza guida, molti badano soltanto a mettersi in salvo. Quando la sua auto viene colpita da una granata, Badoglio scappa a piedi. C'è nella fuga degli alti comandi qualcosa che si rivedrà l'8 settembre 1943, con la fuga del re e del governo presieduto proprio da Badoglio.
LA RITIRATA
Milioni di uomini tra fuggitivi e inseguitori. Sotto la pioggia battente gli sbandati saccheggiano quel che trovano, si ubriacano, entrano nelle case, uccidono gli animali, stuprano le donne di ogni età. Gli inseguitori fanno le stesse cose, con uguale violenza; i tedeschi hanno in tasca un foglietto con un canto di guerra: Le vostre vergini molli le soffocheremo nel nostro amplesso robusto.
L'orda mista di civili e soldati si muove rumorosa e ribelle, la fame è il primo nemico al quale si deve obbedire in fretta. Scappano i sindaci, i notabili, i dipendenti statali. Dice un canto: Ponte de Priula l'è un Piave streto/ i ferma chi vien da Caporetto./ Ponte de Priula l'è un Piave nero/ tuta la grava l'è un cimitero.
Il generale Capello vede la ritirata come un fenomeno grandioso di apatia, quasi di destino inevitabile. Gli sbandati si spostano e s'inchinano al passaggio delle auto dei generali. Cadorna invece accusa subito la II Armata vilmente ritiratasi senza combattere o ignominiosamente arresasi al nemico. Il 4 novembre si decide la ritirata sul Piave: sicuramente è la scelta giusta per salvare l'esercito e riorganizzarsi. Tutto il Cadore e la provincia di Belluno sono sacrificati insieme all'intero Friuli e al Veneto Orientale.
LE RESPONSABILITÀ
Ma il Comando, per non riconoscere le proprie colpe, continua a gettare le responsabilità sui soldati e questo rischia di far esplodere tra i fanti la rivolta che fino a quel momento è stata controllata; si teme che la protesta possa portare alla diserzione di massa, a una rivoluzione. Caporetto è il nodo cruciale della guerra italiana, il momento in cui vengono evidenziate tutte le contraddizioni.
Per prevenire la sommossa, Cadorna ordina la repressione, il problema non è fare giustizia, è dare l'esempio senza pietà. Si giudica un caso ogni quarto d'ora, dopo Caporetto sono seguite 750 condanne a morte. Si scatena anche una campagna d'odio nei confronti dei prigionieri, il governo li ignora, vieta persino l'invio di viveri.
Intanto 650.000 profughi, a bordo di treni speciali e sotto scorta dei carabinieri, si spargono per l'Italia, anche quella più profonda. È la prima tragedia collettiva che investe la popolazione civile e, forse, l'identità nazionale prende forma in questi momenti. C'è un titolo sul Gazzettino del 10 novembre: L'esercito italiano allineato sul Piave si accinge alla resistenza. È cambiato il governo, è cambiato il vertice militare: ora c'è Armando Diaz al posto di Cadorna, è lui a firmare il Bollettino n. 899: Le truppe continuano ad affluire e ad affermarsi sulle posizioni prescelte per la resistenza. Meno di un anno dopo, Diaz firmerà il Bollettino n.1268, quello della Vittoria.
Edoardo Pittalis
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