Rappresentanza sindacale e vecchi tabù da superare

Lunedì 16 Luglio 2018
Oscar Giannino
Al netto di tutte le roventi polemiche scatenatesi in questi giorni sugli effetti che avrà sull'occupazione il giro di vite sui contratti a tempo, e che hanno finito per estendersi anche su quanto la politica pretenda di allineare ai propri desiderata l'operato di parti essenziali della Pubblica Amministrazione, qualche giorno fa il vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio ha toccato un tema rilevante che è un errore lasciar cadere. Un tema di solito lasciato ai tecnici che seguono vicende e norme relative alle relazioni industriali, e che ha invece un'importanza essenziale e generale: quello della reale rappresentanza sindacale. E' un tema che nei decenni ha animato molte controversie. Era normato nel mondo del lavoro privato dall'articolo 19 del vecchio Statuto dei lavoratori, ma in modo che venne modificato per via referendaria nel 1995, col risultato di far restare dei criteri generici e imprecisi. Le parti datoriali e sindacali dal 2008 iniziarono un lungo percorso a trappe per ridefinire i criteri di rappresentanza dei sindacati collegati ai diritti sindacali nelle aziende, ai requisiti minimi per partecipare ai tavoli contrattuali nazionali , locali e aziendali, e per consentire poi una precisa e concreta esigibilità dei contratti da parte delle imprese. Quel percorso fu interrotto dalla vicenda Fiat, che vide la Fiom scegliere antagonisticamente una via giudiziale per contestare accordi che non aveva firmato. Oltre la vicenda Fiat, il confronto tra i maggiori sindacati (...) Segue a pagina 23
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