IL RITRATTO
C'erano stati due crolli in pochi mesi in un uomo già malato.

Martedì 23 Ottobre 2018
IL RITRATTO
C'erano stati due crolli in pochi mesi in un uomo già malato. Troppi. Uno privato, la morte del fratello minore Carlo; uno enorme e pubblico, quello del Ponte Morandi di Genova col suo carico di domande senza risposte. E lui che talvolta alle risposte preferiva sorrisi venati di malinconia, è rimasto in silenzio.
Gilberto Benetton è morto in ospedale a Treviso, aveva 77 anni. Con i fratelli nel 1965 era stato tra i fondatori del gruppo diventato un impero. Per Forbes era il dodicesimo uomo più ricco d'Italia e uno dei settecento più ricchi del mondo.
Quando tutto è nato nel Veneto del miracolo economico, Carlo e Giuliana erano i tecnici della rivoluzione della moda del maglione colorato, Luciano il creativo, Gilberto l'uomo dei conti, l'anima finanziaria. Sono tutti ventenni, seguono il progetto del fratello maggiore Luciano che ha iniziato da zero come garzone di pasticceria e strillone di giornali alla stazione. S'indebitano e scommettono sull'abilità di Giuliana e di Carlo nel creare maglioni diversi da quelli che sono sul mercato. Ma anche sulla genialità del leader e sulla tenace affidabilità di Gilberto.
È un'imprenditorialità nuova quella dei fratelli di Ponzano, aggressiva al punto giusto, provocatoria grazie anche alle campagne pubblicitarie di Toscani. Combina la mancanza di originalità del prodotto e di alcune fasi della lavorazione con strategie e tecnologie di mercato moderne. Un luogo anonimo della provincia veneta diventa la capitale di una produzione che invade il mondo.
Entrano nella storia, prima aprendo negozi con vetrine in 120 nazioni tutti col marchio Benetton. Poi diversificando fino a costruire un impero miliardario che ha dato lustro alla dinastia fino alla drammatica vicenda genovese e allo sconcertante seguito.
IL SISTEMA
Quando la crescita della famiglia si rivela tra le più spettacolari del capitalismo italiano e i tempi esigono innovazione e diversificazione, la Benetton diventa un sistema e dall'azienda madre via via escono società che finiscono in una holding che contiene tutte le partecipazioni del gruppo. Non più soltanto maglioni e abbigliamento anche con marchi oltre United Colors of Benetton, ma Autogrill, Autostrade, infrastrutture, Grandi Stazioni, aeroporti, agricoltura, allevamento, finanziarie, telefonia e molto altro ancora. Ma qualsiasi cosa i quattro fratelli facessero, la gestione è sempre stata collettiva. C'era l'accettazione dei successi e degli insuccessi, come è accaduto per la vicenda Telecom. «Mi sono sempre considerato un componente dei quattro», diceva Gilberto.
Ha gestito in prima persona la diversificazione del gruppo, ne è stato l'artefice in giro per il mondo. Ha spinto per l'uscita dal guscio protetto della moda e si è mosso negli Anni '90 con disinvoltura e spesso con bravura dalla Nordica alla privatizzazione della Sme per arrivare ad Autostrade. Certo affiancato da collaboratori eccezionali, come Carlo Mion; spesso con partner più che eccellenti, come Del Vecchio e la Luxottica per l'operazione Autogrill. In prima linea su una strada che ha disegnato la storia del grande successo.
Uomo schivo, semplice, «straordinariamente umile» l'aveva definito Giorgio Lago; mai arrogante ma non per questo arrendevole in un ambiente che misura i gesti e i portafogli. Passo dopo passo fino a salire tutti i gradini della finanza e degli affari a nome della famiglia. Vicepresidente della Edition srl la finanziaria dei Benetton, vicepresidente di Autogrill, consigliere del gruppo di Atlantia, di Mediobanca, di Allianz, di Pirelli &c. Poco prima dell'aggravarsi della malattia aveva chiuso con successo l'operazione Atlantia su Abertis che lo aveva impegnato per tutto il 2017. Era l'unico della famiglia nel consiglio di Atlantia, si era mosso per dare il via al più grande gruppo delle infrastrutture d'Europa, con gli spagnoli capeggiati da Florentino Perez, il padre-padrone del Real Madrid.
Uomo quasi timido, con pochi amici ma con molte conoscenze nel mondo della finanza, Gilberto Benetton quasi dava l'impressione di uno che volutamente ostentava una vita quasi al di sotto dei suoi mezzi. Andava fiero di poche cose, fino a emozionarsi: la Legion d'onore concessagli dal presidente Francese Sarkozy e l'ingresso come benemerito nell'Italia Basket Hall of Fame. E l'ultimo riconoscimento scopre un aspetto diverso del Benetton privato, il Gilberto sportivo rompeva gli argini con la passione, non tratteneva gli umori. La Benetton ha fatto grande Treviso in vari sport, a incominciare dagli scudetti nel basket, nel rugby e nella pallavolo. Ci fu un anno in cui Treviso divenne capitale dello sport italiano: aveva tutte le squadre in serie A, compresa straordinariamente anche quella del calcio. Dal 1978 al 2011 le squadre Benetton hanno vinto 60 titoli, poi l'addio della famiglia all'attività professionale nel basket e nel volley. Senza dimenticare l'importante e vincente sponsorizzazione nella Formula 1. Era un modello irripetibile del quale Gilberto è stato il motore. Come è stato lui a volere quell'autentica cittadella sport che è la Ghirada, a Treviso, votata soprattutto alla valorizzazione dei settori giovanili. C'era anche il Golf, con Asolo, nei suoi interessi.
IL PESO
Ha amato pure il calcio, anche se da anni non andava a vedere una partita. «Il calcio un tempo mi piaceva. Eccome. Andavo all'Appiani a vedere il Padova di Rocco che aveva anche allenato il Treviso. Mi piacevano Brighenti e Hamrin, lo svedese». Era tifoso del Milan: «Sì, ma il Milan di Rivera».
Una strada che è sembrata trionfale, fino a quel maledetto giorno d'agosto quando sotto la pioggia che sembrava diluvio è crollato il Ponte Morandi travolgendo anche le certezze della corazzata Autostrade. Per tre settimane, la famiglia Benetton che col 30% di Atlantia controlla l'88% di Autostrade per l'Italia, ha risposto col silenzio a critiche e accuse di ogni genere, un silenzio che ha fatto sembrare la società quasi colpevole senza processo. Mentre si spargevano le voci che il giorno dopo la tragedia la famiglia Benetton avesse festeggiato a Cortina con 90 ospiti: «Lo facciamo da trent'anni e questa volta era in nome di Carlo». È stato proprio Gilberto a rompere il silenzio, dopo tre settimane, a spiegare che non parlare era «un segno di rispetto», che «la discrezione fa parte della nostra cultura» e che erano pronti a fare tutto ciò che era necessario «per favorire l'accertamento della verità e della responsabilità dell'accaduto».
Già gravemente malato, Gilberto è uscito allo scoperto; il muro era pericolosamente sgretolato, prima la morte del fratello, poi quel ponte maledetto avevano ferito un fisico indebolito e soprattutto fatto franare le speranze. Ai funerali del fratello il prete aveva domandato: «Che senso ha lavorare tanto e poi morire?». Carlo era il più giovane, quello che aveva scelto la terra e la bicicletta per allontanarsi con i suoi sogni. Gilberto si era caricato il compito di portare alla famiglia i conti giorno per giorno, le illusioni e le delusioni. Anche i conti delle tragedie troppo grandi, come quella del Ponte Morandi. Di quelle che possono schiacciare sotto il peso. E alle quali per rispondere non basta un sorriso malinconico.
Edoardo Pittalis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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