Caso Coimpo: «Le maschere non erano sufficienti»

Martedì 10 Aprile 2018
Caso Coimpo: «Le maschere non erano sufficienti»
PROCESSO
ROVIGO «Quelle maschere non erano idonee: servono a trattenere fino a una certa concentrazione, poi il filtro si satura. Sarebbero serviti degli autorespiratori»: il 22 settembre del 2014, nel drammatico incidente all'impianto Coimpo-Agribiofert di Ca' Emo, la concentrazione di sostanze velenose che si sono sprigionate, acido solfidrico e ammoniaca in particolare, era talmente alta che nemmeno indossando le maschere in dotazione i tre dipendenti dell'azienda di Ca' Emo, Nicolò Bellato, 23 anni, Paolo Valesella, 53, e Marco Berti, 47, e l'autotrasportatore Giuseppe Baldan, 48, si sarebbero potuti salvare.
TESTIMONIANZA
A evidenziare questo aspetto è stato Donato Tommasi, dirigente dello Spisal che ha coordinato gli accertamenti dopo la tragedia plurima, la cui testimonianza ha occupato la lunghissima udienza di ieri del processo che vede gli otto imputati, i vertici della Coimpo e della gemella Agribiofert, Mauro e Glenda Luise, Gianni e Alessia Pagnin, Rossano Stocco, Mario Crepaldi e Michele Fiore, e Alberto Albertini, legale rappresentante della Psc Prima di Marano di Mira, chiamati a rispondere dell'ipotesi di reato di omicidio colposo.
Per i primi sette anche per i sette anche le accuse di omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro e di getto pericoloso di cose per le emissioni odorigene.
Tommasi era già stato ascoltato nella precedente udienza e sarà sentito anche nella prossima, il 18 aprile, perché il tempo dalle 11 alle 18 di ieri non è bastato a esaurire tutte le domande poste dal pubblico ministero Sabrina Duò, dagli avvocati di parte civile e da quelli delle difese.
LE ACCUSE
Fra le contestazioni mosse dallo Spisal sul fronte della sicurezza sul lavoro nell'impianto di Ca' Emo, la mancanza di sistemi di allarme e rilevazioni delle emissioni tossiche. Per quanto riguarda i sistemi di protezione individuale, molte delle domande si sono inevitabilmente incentrate sulle maschere. Che comunque nessuno dei lavoratori stava utilizzando quando si è sprigionata la nube tossica che ha causato le quattro morti.
MASCHERE INUTILI
Le maschere, sia quelle in dotazione ai dipendenti dello stabilimento Coimpo che quella della ditta di trasporti, ha spiegato l'ispettore Spisal, erano sostanzialmente analoghe, anche se le prime a copertura parziale del volto: il filtro, infatti, era lo stesso, «ma a quelle concentrazioni quella maschera lì non serve più», ha rimarcato.
Secondo la contestazione dello Spisal, il problema è stato rappresentato dalla modalità di conferimento dell'acido solforico, che se fosse stato versato all'interno dell'apposito silos non avrebbe rappresentato un pericolo, mentre «lo sversamento diretto non era una procedura corretta». Il tutto, ha sottolineato il dirigente, sarebbe dovuto avvenire in un «sistema a ciclo chiuso».
Tuttavia, da parte delle difese è stato prodotta una determinazione della Provincia in cui si sarebbe indicato lo scarico direttamente nella vasca come il più idoneo. Questioni tecniche delicate che saranno oggetto di ulteriori approfondimenti nel corso del lungo processo.
F.Cam.
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