LE CARTE
VENEZIA In una lettera scritta nel penitenziario di Papuda, e divulgata

Martedì 26 Marzo 2019
LE CARTE
VENEZIA In una lettera scritta nel penitenziario di Papuda, e divulgata dai suoi avvocati il 30 gennaio 2009, Cesare Battisti affermava: «Non sono responsabile per nessuna delle morti di cui sono accusato». E in un'intervista a Radio1 registrata a Cananéia, trasmessa il 25 ottobre 2017, l'ex leader dei Proletari armati per il comunismo ribadiva: «Non sono responsabile di quegli omicidi, devono provare prima che li ho fatti e non l'hanno mai provato». Ma nell'interrogatorio reso fra sabato e domenica nel carcere di Oristano, il 64enne «ha riconosciuto con sofferenza, ma senza infingimento alcuno, la propria responsabilità per tutti i fatti per i quali era stato condannato», secondo quanto riferito dall'avvocato Davide Steccanella, che precedentemente gli aveva fatto avere «tutte le sentenze sui Pac», come ha sottolineato il sostituto procuratore Alberto Nobili. Sono in particolare tre, emesse tutte a Milano, una dalla Corte d'Assise nel 1988 e due dalla Corte d'Assise d'Appello rispettivamente nel 1990 e nel 1993: eccone gli stralci salienti, da rileggere in controluce rispetto alle dichiarazioni di innocenza pronunciate durante la latitanza.
SANTORO
Un anno e mezzo fa Battisti definiva così le accuse nei suoi confronti: «Invenzione pura e propria». Ma i verdetti passati in giudicato lo hanno riconosciuto colpevole in particolare di quattro delitti, a cominciare da quello del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, avvenuto a Udine il 6 giugno 1978 e considerato dai giudici «un salto di qualità nella attività della banda armata: per la prima volta, infatti, l'attacco alla persona, già attuato con i ferimenti Fava e Rossanigo (i medici Diego e Giorgio, ndr.), è diretto alla eliminazione fisica della vittima». Era mattina presto e il poliziotto stava camminando in via Spalato: «Un giovane, che, fingendo effusioni con una ragazza dai capelli rossi, lo aveva atteso all'incrocio tra quella strada e via Albona, gli spara alle spalle due colpi di pistola e lo uccide». Il delitto venne rivendicato telefonicamente all'Ansa e al Gazzettino di Venezia, dopodiché furono trovate anche a Mestre copie di un volantino a sigla Pac dal titolo: «Contro i lager di Stato».
La descrizione fornita da cinque testimoni coincise con le foto segnaletiche di Battisti e con il racconto del collaboratore Pietro Mutti, secondo cui il sodale «si era nell'occasione applicato barba e baffi finti color castano». Cruciale anche il ricordo dell'ex compagna, poi dissociata, Maria Cecilia Barbetta: «Fu il Battisti stesso a confessarle la sua partecipazione all'omicidio del maresciallo Santoro, dicendole quale effetto fa vedere uscire il sangue da un uomo colpito». Il movente? Detenuto a Udine insieme al veronese Arrigo Cavallina, il terrorista aveva «sperimentato la severità disciplinare del maresciallo Santoro».
TORREGIANI
Battisti rimediò altri due ergastoli per i delitti del 16 febbraio 1979, quelli del gioielliere Pier Luigi Torregiani a Milano e del macellaio Lino Sabbadin a Santa Maria di Sala, entrambi accusati dai Pac di essere «nemici del proletariato», in quanto alcune settimane prima avevano reagito a due rapine. Torregiani fu ucciso alle 15 da un commando nei pressi del suo negozio, mentre suo figlio Alberto rimase paralizzato. Al riguardo dieci anni fa Battisti scriveva che «è provata la responsabilità degli omicidi, specialmente quello del gioielliere Pier Luigi Torregiani», aggiungendo: «Sappiamo dalle autorità italiane che gli autori sono le seguenti persone: Memeo, Fatone, Masala e Grimaldi, tutti collaboratori di giustizia, pentiti, e che la pallottola che colpì il figlio del gioielliere Torregiani proveniva dalla pistola di suo padre».
Effettivamente la giustizia individuò, come esecutori materiali, Giuseppe Memeo, Sante Fatone, Sebastiano Masala e Gabriele Grimaldi. Battisti venne però ugualmente condannato per il concorso morale, di nuovo sulla base delle dichiarazioni di Mutti, che lo indicò come componente della commissione incaricata di «mettere a fuoco (in senso non figurato) i problemi, individuare gli obiettivi e studiare le modalità d'intervento». Secondo i giudici, Battisti «curava i collegamenti informativi» tra i milanesi e i veneti: «Iniziarono ad arrivare dal Veneto, e da Padova in particolare, notizie che i compagni dislocati in luogo avevano trovato ed individuato dei possibili obiettivi e che erano decisi ad intervenire in forma omicidiaria, senza nemmeno prendere in considerazione una soluzione diversa».
SABBADIN
Motivazioni riecheggiate anche a proposito dell'omicidio Sabbadin, freddato alle 16.50 all'interno della sua bottega dal padovano Diego Giacomini, mentre la sua fidanzata e conterranea Paola Filippi aspettava fuori come autista. Perentori i giudici, citando le testimonianze raccolte quel giorno a Caltana: «Il compagno dello sparatore viene indicato con caratteristiche somatiche di altezza e di corporatura che rispecchiano quelle del Battisti». E ancora: «Deve senz'altro individuarsi nel Battisti colui che, nel corso della riunione tenutasi due giorni prima degli omicidi in casa del Bergamin (il padovano Luigi, tuttora latitante, ndr.), facendosi portavoce dei veneti, si limitò a dire che l'operazione alla quale lavoravano era già pronta e che sarebbe partito per Padova il giorno successivo; e, detto questo, si allontanò subito dopo, senza minimamente prendere in considerazione le perplessità avanzate da tutti gli altri compagni presenti».
Pensare che nel 2017, durante la sua fuga in Brasile, l'ex leader ribatteva così ai magistrati: «Non c'è stata tutta questa violenza che loro dicono».
CAMPAGNA
Del resto, sempre in quell'occasione, Battisti parlava degli anni di piombo in questi termini: «Ho fatto parte di questa guerra, ma fortunatamente sono uscito prima che cominciassero gli omicidi nel mio gruppo». Il quarto per cui venne condannato al carcere a vita fu commesso a Milano, nel primo pomeriggio del 19 aprile 1979, quando il poliziotto Andrea Campagna fu raggiunto da cinque pallottole. Per i giudici, dichiarazioni e riscontri «portano alla identificazione del Battisti come di colui che materialmente esplose i colpi contro la vittima»: era lui quel «giovane biondo, non alto, con gli stivaletti camperos e con un giubbotto di renna». Lui che, attraverso i suoi difensori, trent'anni fa bollò il processo come «un puro luogo di racconti da parte di pentiti peraltro interessati ai benefici delle leggi premiali». Corsi e ricorsi della storia, si tratta dello stesso dubbio che adesso aleggia sulla sua confessione, sospettata di essere mirata ad ottenere qualche agevolazione penitenziaria.
Angela Pederiva
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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