Gli anni 80 e il patto con Maniero la pericolosa escalation delle mafie

Mercoledì 19 Dicembre 2018
Gli anni 80 e il patto con Maniero la pericolosa escalation delle mafie
LA STORIA
VENEZIA Bisogna tornare indietro di un trentennio, all'inizio degli anni Novanta, se non ancora prima, alla metà degli anni Ottanta, per trovare traccia delle prime infiltrazioni a Nordest da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso. Camorra, prevalentemente nell'area del Portogruarese e nel litorale di Lignano; Ndrangheta nel Veronese; Cosa Nostra nel Vicentino, come dimostrò la cattura nel 92 del boss Giuseppe Piddu Madonia, che viveva tranquillamente a Longare di Costozza, sotto falso nome. Ma anche nel Veneziano, grazie a Gaetano Fidanzati che, in soggiorno obbligato a Fossò, si alleò con il boss della mala del Brenta, Felice Maniero per trafficare in droga.
In Friuli Venezia Giulia il fenomeno è invece più recente ed è legato, almeno inizialmente, alla presenza del carcere di massima sicurezza di Tolmezzo dove sono reclusi molti boss mafiosi, e di conseguenza si sono trasferiti alcuni dei loro familiari. «Un fenomeno in crescita e finora sottovalutato», conferma il procuratore capo di Trieste, Carlo Mastelloni che, dopo gli arresti di ieri, ha chiesto più uomini e mezzi per contrastare una «presenza ormai continuativa» di soggetti legati alla criminalità organizzata.
VIOLENZA E INTIMIDAZIONE
Fare una mappa precisa delle presenze a Nordest non è facile, così come tratteggiare con esattezza legami con cosche o gruppi mafiosi di origine, in quanto nel corso degli anni camorristi, mafiosi e ndranghetisti si sono radicati al Nord assumendo caratteristiche specifiche e ritagliandosi una certa autonomia: le loro azioni sono di stampo mafioso prima di tutto per la modalità, prima ancora che per l'appartenenza ad un'organizzazione con base al Sud. Anche se talvolta i gruppi locali continuano a mantenere il marchio di origine (che peraltro funziona molto bene come mezzo di intimidazione) e a versare alla casa madre una percentuale delle entrate illecite. È il caso del gruppo sgominato qualche anno fa dall'allora pm antimafia di Venezia, Roberto Terzo: i casalesi, camorristi di Casal di Principe, che prestavano denaro a tassi usurari, per poi taglieggiare imprenditori veneti con la copertura di una società con sede a Padova, denominata Aspide. Ad attirare le mafie al Nord è sempre e comunque il business, la prospettiva di poter riciclare una parte dei proventi illeciti attraverso società in apparenza pulite, che operano principalmente nel settore delle costruzioni, oppure della ristorazione, del turismo. Così hanno fatto i casalesi colonizzando il Portogruarese, dove hanno investito i proventi del traffico di droga, ma soprattutto quelli del business dello smaltimento abusivo dei rifiuti, capaci di fruttare l'equivalente di un miliardo di vecchie lire alla settimana, come ha riferito un collaboratore che aiutò gli investigatori a ricostruire l'ambiente nel quale si muoveva Mario Crisci, la mente di Aspide. Lo scandalo della terra dei fuochi ha poi confermato in tutta la sua drammaticità la portata del fenomeno, con veleni sotterrati senza alcun controllo un po' dovunque in Campania.
ASPIDE PAGAVA
Nel 2011, l'inchiesta su Crisci (condannato a 15 anni di reclusione) ed una ventina di suoi sodali, portò alla luce la violenza, la prepotenza, il cinismo con cui i casalesi esercitavano in Veneto il potere criminale: Aspide pagava il pizzo ai camorristi di Casal di Principe per poter utilizzare il loro marchio e poter così terrorizzare gli imprenditori in difficoltà.
RIFUGIO DI LATITANTI
Ma i casalesi nell'area del Veneto orientale si sono insediati ben prima, in silenzio, acquisendo pian piano attività economiche, senza dare troppo nell'occhio. Che si fosse radicata anche la criminalità lo si è capito soltanto successivamente: il giorno di San Valentino del 1998, in una villetta in riva al mare, a Caorle, fu arrestato dagli uomini della Squadra Mobile di Venezia il primo di una serie di latitanti eccellenti, Costantino Sarno, appartenente all'Alleanza di Secondigliano, il clan che aveva fatto terra bruciata a Napoli a colpi di morti ammazzati. Nel 2005 è la volta di un altro camorrista di rango, Vincenzo Pernice, il cassiere dei clan Licciardi, preso a Portogruaro nel 2005. E lo stesso anno, ad Eraclea, finisce in manette Salvatore Gemito del clan Di Lauro, famoso per la faida che a Scampia aveva visto contrapporsi, a colpi di kalashnikov il suo gruppo con i cosiddetti scissionisti. Difficile pensare che una presenza così nutrita di pezzi da novanta della Camorra possa essere soltanto una coincidenza.
PROCURATORE ANTIMAFIA
Ma gli affari non si fanno soltanto nel Veneto Orientale, tant'è che nel marzo del 2016 in un appartamento di Sottomarina, nascosto dentro un armadio, viene scoperto il boss camorrista Luigi Cimmino. A Chioggia la mafia risulta essere sbarcata fin dall'inizio degli anni 2000, quando i Lo Piccolo, il clan più importante di Palermo dopo la cattura di Bernando Provenzano, avevano pensato di investire 8 milioni di euro nell'Isola dei Saloni, in un progetto di riqualificazione urbanistica di un'area portuale. Sempre affari.
«Oggi, anche in Veneto, proteggere l'economia dalle infiltrazioni mafiose è la priorità assoluta», dichiarò qualche mese fa a Treviso il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho. Ma, mentre magistratura e forze dell'ordine stanno dando il massimo, non vi è da parte della politica un analogo impegno di sensibilizzazione e mobilitazione nei confronti di un fenomeno che riguarda tutti e preoccupa ben più dei piccoli reati sui quali, invece, gli amministratori concentrano tutta l'attenzione e gli sforzi.
Gianluca Amadori
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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