Tintoretto, genio irascibile cacciato da Tiziano

Lunedì 27 Marzo 2017 di Alberto Toso Fei
illustrazione di Matteo Bergamelli
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Irascibile, scorbutico, scostante, a volte sleale; ma anche generoso, padre amorevole, persona intelligente e pronta di spirito: da qualunque angolazione lo si guardi, Jacopo Robusti, “Il Tintoretto”, rappresenta i fasti e le bassezze dell’epoca che lo vide diventare uno dei pittori più affermati della storia, il Rinascimento, e di una città della quale incarnò le contraddizioni e la grandiosità: Venezia.

Figlio di un tintore di panni (eventualità per cui gli rimarrà sempre appiccicato il soprannome), racconta Carlo Ridolfi come, ancora bambino, usasse i colori delle tinture per dipingere le pareti del laboratorio del padre Battista: per assecondarne l'inclinazione, questi gli trovò un posto come apprendista presso la bottega di Tiziano. Era il 1530, e l'apprendistato durò solo pochi giorni: pare che Tiziano, visto un disegno dell'allievo, per il timore che potesse diventare un pericoloso rivale lo fece cacciare dal suo studio. Inutilmente.

Tintoretto era tanto bravo col pennello quanto difficile di carattere. Un giorno, mentre a Palazzo Ducale stava lavorando al “giudizio universale” - un quadro dalle proporzioni immense che non esiste più, essendo andato distrutto in un incendio nel 1577 - ed era tutto concentrato per concludere al più presto, gli si avvicinarono alcuni dignitari della Repubblica. Dopo un po' uno di questi, vedendo Tintoretto che come al solito dipingeva con molta rapidità e con pennellate nervose, non si trattenne dall’osservare che altri pittori andavano forse più a rilento ma facevano di sicuro lavori più accurati. “Può darsi che sia come dice lei – rispose bruscamente Tintoretto, che interruppe il lavoro e si affacciò dal ponteggio – ma di sicuro loro non hanno troppa gente che va a rompergli i coglioni mentre stanno dipingendo”. E raggelati i nobili, che se ne andarono alla spicciolata, riprese a dipingere più in fretta di prima.

Non era però uno stinco di santo. Nel 1549 i confratelli di San Rocco bandirono un concorso per scegliere chi, fra i maggiori pittori dell’epoca, avrebbe dipinto le opere destinate a ornare le sale della loro Scuola Grande. Alla gara parteciparono i più famosi artisti presenti allora in città, fra cui Paolo Veronese, Giuseppe Salviati, Andrea Schiavone e, appunto, Jacopo Tintoretto.

Quest’ultimo, comprata la complicità dei custodi della Scuola, carpì le misure dell’ovale del soffitto e mentre gli avversari erano alle prese coi bozzetti, dipinse il quadro che ancora oggi fa mostra di sé, facendolo montare sul posto. Il giorno dell’esame dei bozzetti, con un grande colpo di teatro il pittore fece scoprire la sua tela, precisando che qualora non fosse piaciuta ne avrebbe fatto dono a San Rocco. Nel fare ciò, si avvalse maliziosamente di una antica legge delle Scuole veneziane, secondo la quale un dono fatto a un Santo non poteva essere rifiutato. Ricevette così l’incarico di terminare l’intero ciclo.

Padre amorevole, dopo aver avuto una figlia illegittima con una straniera (Marietta, anche lei pittrice di talento) nel 1550 sposò Faustina Episcopi, da cui ebbe sette tra figli e figlie (incluso Domenico, anch'egli pittore); nel testamento li nominò tutti come suoi eredi, trattando maschi e femmine con pari dignità. Morì nel 1594 ed è sepolto assieme a Marietta e Domenico nella chiesa della Madonna dell'Orto.
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