Quella strage cancellata dalla storia: ​l'esplosione e 161 morti a Venezia

Domenica 24 Marzo 2019 di Vittorio Pierobon
Quella strage cancellata dalla storia: l'esplosione e 161 morti a Venezia
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Lo storico Piero Lando quasi per caso si è imbattuto nell'esplosione del Santo Spiridione, la nave che il 27 marzo 1919 s'incendiò sulla banchina di Santa Marta a Venezia. «Ho fatto ricerche, ma a parte le prime pagine dei giornali dell'epoca non c'è traccia di questa tragedia superiore al disastro della Moby Prince. A bordo c'erano molti militari diretti a Fiume».

Il Gazzettino titolava così in prima pagina: La catastrofe di un piroscafo nel porto di Venezia e nel sommario chiariva: Esplosione formidabile - Decine di vittime. Era il 28 marzo del 1919. Sono passati cento anni e quella tragedia è stata completamente dimenticata. Rimossa come se non fosse mai accaduta. Eppure i morti furono ben 161. È stato il più grave incidente navale mai accaduto in un porto italiano. Superiore al disastro della Moby Prince, che causò 140 vittime. L'esplosione del Santo Spiridione, questo il nome della nave, è una pagina di storia strappata alla memoria. Censurata. Su questa tragedia è calato l'oblio. A Venezia nessuno ricorda, non c'è una lapide, un cippo. Silenzio totale. Un caso di rimozione collettiva. Un capolavoro di efficienza della censura che,  in pochi giorni, fece sparire la notizia dalle pagine dei giornali nazionali e lasciò solo al Gazzettino e alla Gazzetta di Venezia la possibilità di fare cronaca. Le informazioni vennero filtrate e ai cronisti dell'epoca non venne mai fornito il conteggio dei morti, solo le notizie quando, anche a distanza di giorni, riaffiorava un cadavere in laguna. Solo la Domenica illustrata riuscì ad eludere la censura e dedicò una copertina alla tragedia. 

LO STUDIOSOL'Italia usciva dalla guerra, vincitrice, ma distrutta. Il governo (Mussolini era ancora all'opposizione, pronto a marciare su Roma) non voleva creare allarmismi. Lo scoppio di una nave, carica di militari diretti a Fiume, città italiana, avvenuto in acque super tranquille quali erano considerate quelle lagunari, in circostanze che sembravano fin da subito determinate dalla negligenza, rischiava di far fare una figuraccia alla Regia Marina. Meno si parlava di quell'incidente meglio era per tutti. E il silenzio è durato un secolo. Ora ne parla Piero Lando, uno storico veneziano, studioso degli anni dopo la caduta della Serenissima: Ottocento e primo Novecento. «Confesso che dell'affondamento della Santo Spiridione non ne sapevo nulla, fino a poco tempo fa. Non ne avevo trovato traccia sui libri, e mai avevo raccolto qualche testimonianza.
Ho scoperto tutto per caso, facendo un'altra ricerca: mi stavo occupando della Svan, la Società veneta automobili navali, che aveva sede a Castello, e che costruiva i Mas, i motoscafi armati siluranti che venivano impiegati durante la Prima Guerra mondiale. Quelli usati da Gabriele D'Annunzio per la Beffa di Buccari. Mi è capitata in mano una pagina della Gazzetta di Venezia del 28 marzo 1919 che parlava di questo tremendo scoppio. Mi sono incuriosito e ho scoperto l'esistenza di una tragedia cancellata dalla storia. E per uno studioso di storia è una sfida irresistibile».
LA RICERCALando ha scavato e ha trovato le poche tracce sfuggite alla censura. Il suo racconto è affascinante, ancorché drammatico. Il Santo Spiridione era un mercantile di proprietà di un armatore triestino, requisito dal governo per motivi militari. All'epoca, nonostante la firma dell'armistizio, vigevano le regole del tempo di guerra. La nave doveva raggiungere l'Istria, terra italiana, per portare armi e soprattutto rifornimenti di combustibile per i Mas. L'equipaggio era civile, ma a bordo c'erano circa 200 militari destinati a prendere servizio nelle terre redente. Alcuni ufficiali avevano imbarcato anche le mogli. Una crociera che si preannunciava breve e tranquilla. Nella notte precedente la partenza sono stati caricati a bordo centinaia di contenitori pieni di carburante. Circa 23 tonnellate di combustibile. Pare che si sia rotto anche un fusto d'olio perdendo 130 litri, dispersi tra i legnami della nave. Le misure di sicurezza adottate sembrano, con gli occhi d'oggi, ridicole. Il comandante Pietro Paikuvic non vietò nemmeno di fumare a bordo. I fusti con il carburante erano stivati in locali scarsamente arieggiati. Una polveriera galleggiante. Su una nave a vapore che bruciava carbone! E infatti la mattina del 27 marzo, appena salpata dalla banchina di Santa Marta, la Santo Spiridione è esplosa.
L'INCIDENTEUna serie di scoppi, uditi in tutta Venezia, un fiume di benzina in fiamme che ha ricoperto il Canale della Giudecca. Le case lungo la riva sono state percosse da un fremito come se ci fosse un terremoto, i vetri si sono spezzati. Dall'acqua grida strazianti dei feriti. I soccorsi sono stati tempestivi, ma problematici, perché non era facile muoversi su quelle acque di fuoco. «Tutto questo l'ho scoperto - racconta Lando - leggendo il Gazzettino e la Gazzetta di Venezia del 28 e del 29 marzo. Cronache ricche di particolari, spesso molto crudi nella descrizione dello strazio delle vittime. Poi non si trova quasi più nulla.
I giornali locali si limitavano a dare notizia, anche a distanza di parecchi giorni, del ritrovamento di qualche corpo. Mai un conteggio delle vittime. Si parlava di decine di morti. Per capire che erano 140 ho dovuto leggere una sentenza della Cassazione del 1922, che dava ragione alla vedova del comandante e la risarciva con 10mila lire. Lì c'è scritto che nella tragedia morirono 140 persone». Anche sull'identità dei morti c'è poca chiarezza. Non esiste un elenco completo. Nelle statistiche del Comune di Venezia, relative al 1919 si parla di 70 vittime. Probabilmente il numero corrisponde a quelle che sono state identificate. I militari (la maggior parte delle vittime) figurano come caduti di guerra e alcuni nomi si ritrovano disseminati nelle lapidi delle città d'origine. 
I MORTITra i marinai c'erano numerosi veneti: Umberto Cimegotto, Riccardo Mas e Giuseppe Sfriso di Venezia e il padovano Galliano Colotti, gli unici nomi rintracciati. «Sembra che attorno a questa tragedia sia stato creato il vuoto - racconta ancora Piero Lando - ho cercato anche all'archivio della Marina Militare, dove c'è un faldone piuttosto scarno dedicato alla Santo Spiridione. Non ho trovato nemmeno una fotografia. Né della tragedia, né del recupero del relitto. Ho consultato anche l'archivio parlamentare perché ci furono due interrogazioni a cui non fu mai data risposta. Ho cercato a Milano alla Biblioteca Sormani, che ha archiviate tutte le raccolte dei giornali. Niente. Molte pagine all'epoca venivano censurate. Forse gli articoli c'erano, ma coperti».
Da quando si è imbattuto in questa pagina di storia nascosta, Lando ha cercato di fare un po' di luce. Ha trovato qualche discendente. In particolare i pronipoti di un uomo che abitava a Sacca Fisola, isola dall'altra parte del canale della Giudecca, che tutte le mattine, accompagnava i figli in barca a scuola. All'ora dello scoppio lui e i bambini erano normalmente in acqua in mezzo al Canale della Giudecca. Quel 27 marzo, uno dei figli si era dimenticato un quaderno e tornarono indietro a prenderlo. Appena in tempo per sentire il tremendo boato. Un altro pronipote, in questo caso di uno dei morti, vive a Roma e ha detto a Lando che il 27 marzo sarà a Venezia per gettare un mazzo di fiori. Forse sarà l'unico segno che ricorderà le 161 persone morte nel rogo della Santa Spirdione.

Vittorio Pierobon
(vittorio.pierobon@libero.it)
Ultimo aggiornamento: 10:45 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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