Giornata della memoria, ricostruita
la storia di un'ebrea sopravvissuta

Venerdì 20 Gennaio 2017 di Raffaella Ianuale
Lea Rina Cesana con il marito
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VENEZIA - Furono molti i veneziani che si prodigarono a salvare gli ebrei durante l’occupazione tedesca di Venezia. Ci fu chi aprì la cantina e chi il sottotetto mettendo a rischio la propria vita pur di strappare alla morte donne e uomini. Un buon numero di ebrei si rintanò anche all’ospedale civile, ma i fascisti li scoprirono e li spedirono alla Risiera di San Sabba e da qui ad Auschwitz. E’ quindi una convivenza lunga quella dei cattolici e degli ebrei a Venezia, in quel ghetto di cui lo scorso anno si sono celebrati i 500 anni. Un piccolo mondo nel sestiere di Cannaregio poco distante dalla stazione e nel cuore di quella che ora è la Venezia turistica. Tra queste storie ce n’è una che è viva solo nella memoria dei figli dei protagonisti. Una storia di amicizia e salvezza che con gli anni rischiava di perdersi nel nulla. Così Aurelio Bon, che all’epoca della deportazione degli ebrei aveva 7 anni e che ora ne ha 77, ha scritto una lettera in cui racconta cosa hanno fatto all’epoca i suoi genitori e l’ha inviata al presidente della Comunità Ebraica Paolo Gnignati e al Rabbino capo di Venezia Scialom Bahbout. «Solo alla fine della 2a Guerra Mondiale - racconta Bon - venni a sapere che i miei genitori avevano nascosto nel sottotetto della nostra casa in calle Delle Procuratie a Santa Croce, una coppia in cui lei era ebrea. Mio padre, forte della divisa della polizia ferroviaria che all’epoca indossava e che lo rendeva una persona insospettabile, offrì il nascondiglio alla giovane donna sottraendola alla cattura».
Se da una parte i suoi genitori, Francesca Capoduro e Aldo Bon, entrambi nati nel 1911, lo hanno cresciuto raccontandogli questa storia, dall’altra c’era un’altra famiglia veneziana che raccontava la medesima storia al proprio figlio. Era quella di Lea Rina Cesana, la giovane ebrea tenuta nascosta nel sottotetto, e del marito cattolico Giovanni Ferrari. «La mamma mi ha sempre detto che durante la deportazione era stata salvata da una coppia di amici che l’ha tenuta nascosta - racconta il figlio Mirko Ferrari, nato un anno dopo la fine della guerra - Era molto riconoscente a questi coniugi. Anche perchè sua mamma, cioè mia nonna, Anna Jarach era stata catturata durante la retata all’ospedale civile. Fu portata alla Risiera di San Sabba e da qui ad Auschwitz senza fare più ritorno. Dal convoglio che la portava alla morte lanciò una cartolina indirizzata a Venezia ai suoi sette figli. La ritrovarono sui binari e ce la consegnarono. Quindi ricordare la storia della mamma mi ha emozionato».
I due figli - quello della salvata e quello dei salvatori - di recente si sono incontrati. Si sono raccontati lo stesso episodio, quello sentito dai rispettivi genitori quando erano bimbi, e si sono abbracciati. «La deportazione e l’uccisione di 246 ebrei veneziani non si deve dimenticare - conclude Aurelio Bon - però desidererei che nemmeno il gesto dei miei genitori, sicuramente uno dei tanti, svanisse nel nulla».
Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 08:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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