Sebastiano Venier, il doge che in pantofole sconfisse i turchi a Lepanto

Lunedì 18 Settembre 2017 di Alberto Toso Fei
L'illustrazione di Matteo Bergamelli
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Prima di divenire il protagonista di una delle battaglie navali più celebri della storia e di ottenere il dogado (l'11 giugno 1577, con l'unanimità dei quarantuno voti a disposizione), Sebastiano Venier non aveva servito granché nella flotta della Repubblica, ma era stato anzi un buon giurista, un “Avogador” di valore. Fu duca di Candia, capitano a Brescia, podestà di Verona, Procuratore di San Marco e, infine, Capitano Generale da Mar, il 13 dicembre 1570.

Aveva, all'epoca, 74 anni. L'anno successivo stazionava sul ponte di comando della “Capitana”, la sua ammiraglia, che sulle acque di Lepanto – assieme alle altre navi della Lega Santa – combatté nella celebre battaglia che il 7 ottobre 1571 mutò per sempre gli equilibri nelle acque del Mediterraneo, facendo perdere alla flotta Ottomana la fama di invincibilità della quale fino a quel momento aveva goduto.

Comandata dall’ammiraglio supremo Müezzinzade Alì Pascià, la flotta turca era forte di duecentoventidue galee, sessanta galeotte, settecentocinquanta cannoni, trentaquattromila soldati, tredicimila marinai e quarantamila rematori. Le forze poste sotto il comando di don Giovanni d’Austria erano invece estremamente composite: navi spagnole, napoletane, siciliane, genovesi, maltesi e pontificie, oltre naturalmente a quelle veneziane. Su un totale di duecentonove galee, centocinque appartenevano alla Serenissima; la potenza di fuoco della flotta cristiana era di milleottocentocinque cannoni (anche questi per metà veneziani); sulle navi stavano ventottomila soldati, dodicimila e novecentoventi marinai e oltre quarantatremila rematori.



Sebastiano Venier nonostante l'età prese parte in prima persona al combattimento indossando delle pantofole, sostenendo che avrebbero fatto miglior presa sul ponte bagnato di sangue in luogo degli stivali (sebbene sembra che la vera ragione risiedesse nei calli che non gli davano tregua). Quel giorno uccise numerosi nemici a colpi di balestra (aiutato da un fante che gliela ricaricava, poiché non aveva più forza sufficiente nelle braccia), e fu ferito a un piede da una freccia, che si strappò via da solo.

La vittoria fu pagata a caro prezzo: tra i soli cristiani morirono in settemilacinquecento (duemilatrecento i veneziani); i feriti furono quasi ottomila, tra cui Miguel De Cervantes, il celebre autore del “Don Chisciotte”. Alla notizia della sconfitta, il sultano Selim II (la cui favorita nell’harem era una veneziana, Cecilia Venier Baffo), rimase tre giorni senza mangiare; il suo gran visir, Mehemet Sokolli, la prese più sportivamente: «Lepanto ci ha solamente tagliata la barba – disse al bailo veneziano a Costantinopoli Marcantonio Barbaro – essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro (caduta qualche mese prima) ha invece perso un braccio: questo non cresce più».

Figlio di Mosè ed Elena Donà, Sebastiano Venier aveva casa a Santa Maria Formosa. Ebbe da Cecilia Contarini una sola figlia, Elena, che si aggiunse a Filippo e Marco, avuti da rapporti illegittimi. Morì il 3 marzo 1578 e fu sepolto provvisoriamente nell'amata chiesa di Santa Maria degli Angeli a Murano, in attesa che gli venisse edificato un monumento degno delle sue gesta. Che non si fece mai. Solo nel 1907 le sue spoglie furono traslate nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, sotto a una statua di bronzo a grandezza naturale – modellata da Antonio Dal Zotto – in cui il doge compare in armatura e scarpette leggere, così come quelle che indossava mentre combatteva a Lepanto.
Ultimo aggiornamento: 19 Settembre, 10:40 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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