Il "nuovo Corso" porta San Pietro nel... Paradiso del calcio

Martedì 17 Aprile 2018 di Davide Scalzotto
Cerilli con Baggio
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VENEZIA - Nelle stagioni all'Inter lo chiamavano il nuovo Corso, per la magia del sinistro e la fantasia. Ma, a differenza del flemmatico Mariolino (l'interista della foglia morta), Franco Cerilli aveva (e ha) l'indole chioggiotta e l'attitudine all'epica scolpita nel volto e nei polpacci, rigorosamente scoperti quando giocava con i calzettoni abbassati, alla Sivori, al quale lo accomunavano i lineamenti marcati da gaucho e quel genio che solo i mancini, per dono divino, posseggono. E l'epica, anche quella del calcio, non ha palcoscenici: è epica ovunque. A San Siro, al Romeo Menti, all'Appiani o a San Pietro in Volta. Ed è la stessa che il presidente si chiami Ivanoe Fraizzoli, Giussi Farina o Giorgio Antiga, ovvero il dentista dell'isola che, con la moglie e un manipolo di dirigenti, ha impostato il progetto Nuovo San Pietro. Basti su tutte un'immagine: il carosello di auto domenica pomeriggio a Pellestrina, sponda San Pietro, per la promozione in prima categoria conquistata con il 3-2 sul campo del Codevigo. Un chioggiotto che vince (stravince) dall'altra parte della bocca di porto, in faccia ai cugini pellestrinotti. Se non è epica questa...

Cerilli, 22 vittorie (finora) e 65 gol fatti: il Nuovo San Pietro è stato una schiacciasassi.
«E 23 gol presi... Un po' troppi...».
Anche lei è dell'idea che i campionati si vincono partendo dalla difesa?
«Si. Anche se fai un gol più degli altri di solito vinci (ride)...».
Da Chioggia, per vincere col San Pietro, a Pellestrina... Come la vive?
«Ah, bene. Per me significa prendere un vaporetto e andare all'allenamento. Rivalità? Si, c'è da anni col Pellestrina, in passato si è anche provato a fare qualcosa insieme, ma non è stato possibile. Peccato, perché si potrebbe costruire qualcosa di importante. Ma auguro anche al Pellestrina di essere promosso, per questa isola sarebbe il massimo. Noi per adesso ci godiamo il nostro salto, frutto di una attenta programmazione».
In che senso?
«Quando il direttore sportivo Scarpa mi ha chiamato un paio di anni fa, me l'aveva detto: avevano un progetto concreto. Hanno preso giocatori forti, c'è una società solida, c'è un presidente come Antiga che, con la moglie, trasmette grande entusiasmo. C'è un dirigente come Daniele Scarpa che vive a Mogliano, ma che è sempre in isola. Ma le partite e i campionati si vincono con i giocatori. E noi abbiamo preso quelli bravi, dell'isola, oltre - modestamente - a un allenatore come il sottoscritto che proveniva da tre promozioni e qualche play off...».
Avete rubato qualcuno al Pellestrina?
«Sì, qualcuno è arrivato dal Pellestrina. I nostri dirigenti si sono mossi bene».
In squadra c'è anche un certo Cerilli. Parente?
«Si, mio nipote. Ma non è uno di primo pelo. Ha 41 anni ed è arrivato a darci una mano perché il portiere titolare si è infortunato. Era praticamente a riposo...»
Ma lei cosa ha trasmesso a questa squadra? Uno si immagina che abbia messo in pratica gli insegnamenti di Giambattista Fabbri, del Real Vicenza di Paolo Rossi...
«Fabbri è stato un maestro, ma io faccio mio il motto di Fabio Capello: l'allenatore deve essere prima psicologo e poi allenatore. Non sono per la tattica esasperata, lascio i miei giocatori liberi di far valere le loro doti. Dico loro di avere punti di riferimento in campo, ma di non dare punti di riferimento agli avversari. Credo nella fantasia. Oggi si insegna tattica già ai ragazzini, li si ingabbia. Discorso lungo: noi abbiamo imparato a giocare in calle, copiando i grandi campioni. E oggi i campioni non crescono più perché li si ingabbia in rigidi schemi».
Lei ha mai insegnato calcio ai ragazzini?
«Ci ho provato. Ma anni fa a Padova, quando allenavo ragazzi di 13-14 anni, mi mandarono via. Venne il presidente e mi disse: ma perché non fai giocare Tizio e Caio?. Gli risposi che se loro erano una società professionistica, dovevano avere come obiettivo quello di portare in prima squadra giocatori bravi. Io facevo giocare chi meritava, non chi pagava. Fui mandato via. Oggi, la verità, è che per far giocare i ragazzi in società professionistiche, si paga. Capisce che non ci può stare?».
Quanto le fa male vedere il suo Vicenza fallito e sull'orlo della D?
«Tanto, ma anche lì si paga la non programmazione della società. È inutile cambiare allenatore, se non c'è un progetto. E mi spiace per i tifosi, un patrimonio di Vicenza e del Vicenza: 6mila abbonati in C e donazioni continue, meriterebbero ben altro destino».
Dagli stadi della serie A ai dilettanti: come cambia l'emozione per una vittoria?
«È la stessa, cambia solo il palcoscenico. Ma vi giuro che la soddisfazione è la stessa. E anche la passione, se non hai quella, non vai da nessuna parte. Ancora oggi, a 65 anni, il profumo dell'erba (o della terra, visto che non sempre c'è l'erba dove andiamo a giocare) mi trasmette voglia e passione».
Al punto che si mette anche a sistemare il campo...
«È successo. Ma lì non devo fare nulla, salgo sul trattore e mi diverto. Se il nostro magazziniere non c'è, faccio io. Sa, con 10 squadre che giocano sullo stesso campo, ogni tanto una sistemata ci vuole».
Già, dieci squadre e un campo...
«Eh sì, questa isola vive anche di calcio. Anche l'impianto di Pellestrina ha bisogno di manutenzioni.».
E domenica prossima come festeggerete?
«Non so cosa hanno in mente i ragazzi, vedremo. Ma sarà bello celebrare la promozione in casa. L'altro ieri, dopo la vittoria a Codevigo, volevano coinvolgere anche me nel corteo di auto, farmi fare un bagno, non so...Gli ho detto che avevo solo una tuta e dovevo tornare a casa...».
Voi quante volte vi allenate?
«Due, a volte tre alla settimana».
E il resto del tempo, lei cosa fa?
«A 65 anni faccio il nonno di due splendide nipoti».
 

Ultimo aggiornamento: 18 Aprile, 10:58 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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