Giacinto Gallina, il dialetto per cercare di interpretare le inquietudini della borghesia

Lunedì 15 Maggio 2017 di Alberto Toso Fei
Illustrazione di Matteo Bergamelli
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RITRATTI VENEZIANI - “Giacinto Gallina è basso, appena pingue, ha l’aspetto franco, bonario, borghese; ha baffi neri spioventi, occhiali d’oro, capelli corti, brizzolati, appena radi sul sommo del capo. […] Parlava italiano con un puro accento veneto. […] Spesso, nella foga del discutere, diceva un motto dialettale incisivo, e un acume ironico gli accendeva gli occhi”.

È questa la descrizione che un giovanissimo Ugo Ojetti fece del commediografo Giacinto Gallina, che incontrò a Roma nel 1891 a margine di una delle fortunate rappresentazioni diSerenissima al Teatro Drammatico Nazionale di via Quattro Novembre. Oggi il teatro non c'è più, ma una targa poco lontana ricorda la casa dove soggiornò il veneziano.

A quei tempi Gallina era decisamente in auge (e già preda di una malattia al fegato che lo porterà alla morte sei anni più tardi, a 45 anni), ma non era stato sempre così: dopo un avvio un po' stentato con una commedia messa in scena nel 1870, L'ipocrisia, che raccolse diverse critiche ma anche qualche apprezzamento, si cimentò con la tragedia Amore e Onestà, che presentò l'anno successivo al Teatro Apollo (l'attuale Goldoni). Fu un fiasco totale.

Ma qualcuno credette alle sue potenzialità, come il capocomico Angelo Moro-Lin, che lo convinse (e Gallina ci si mise inizialmente controvoglia) a dedicarsi alla commedia in lingua veneziana. Il suo primo lavoro di questo genere, Le barufe in famegia (ispirato apertamente a La famiglia dell'antiquario di Carlo Goldoni) fu rappresentato nel gennaio del 1872 e fu un successo: Gallina da allora rimase sempre legato alla compagnia di Moro-Lin, e divenne l'erede riconosciuto del teatro goldoniano. Ne fece anche una missione di vita: “Per me era doloroso – disse Gallina al giornalista Ojetti nel corso di quello stesso incontro – vedere il teatro veneziano, la tradizione goldoniana nobilissima decadere, come è decaduto il teatro piemontese, milanese, napoletano, e alla bella impresa ho dato tutte le mie forze”.

Addirittura tradurrà in veneziano La famegia del Santolo, commedia che aveva scritto originariamente in italiano, considerata uno dei suoi lavori più riusciti; non a caso diverrà un successo sul piccolo schermo negli anni Sessanta del Novecento, portata in televisione da un inarrivabile Cesco Baseggio.

Giacinto Gallina nacque nel 1852 alla Bragora, al civico 3414, e da bambino visse col solo padre, a causa della separazione dei genitori. Fu proprio seguendo il padre Giovanni, medico incaricato dal municipio di prestare servizio nei teatri, che prese dimestichezza col palcoscenico. Eppure la sua formazione – per quanto discontinua – fu classica, iniziata al liceo Marco Polo e continuata al liceo Foscarini. Abbandonati gli studi, Gallina entrò come violoncellista nell'orchestra del Teatro Malibran, prima di dedicarsi alla scrittura.

Le sue opere raccontarono soprattutto la crisi dell'aristocrazia e le inquietudini della borghesia. Morì malato e in estrema povertà. Poco prima di morire (nella sua casa di Rialto) si sposò in ospedale con l'attrice Paolina Campsi; a celebrare le nozze civili fu l’allora sindaco di Venezia, Riccardo Selvatico, altro scrittore e suo amico, che tempo prima gli aveva concesso un vitalizio che gli permettesse di sostentarsi.
Ultimo aggiornamento: 16 Maggio, 11:54 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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