Nordio: «La giustizia non va? Colpa dei politici», stoccate al Guardasigilli

Mercoledì 8 Febbraio 2017 di Gianluca Amadori
La festa di pensionamento oggi in procura
10
VENEZIA - Non c’è un disegno preordinato: la giustizia non funziona per colpa dell’assoluta incapacità della classe politica di capire quali sono i veri problemi. E, laddove li capisce, di non sapere come affrontarli».
Se ne va dalla magistratura sbattendo la porta a suo modo Carlo Nordio, uno dei pubblici ministeri che hanno scritto un pezzo di storia della giustizia, e non solo veneziana: dalle indagini sulle Brigate Rosse a quelle sul Mose, passando per la presidenza della Commissione per la riforma del Codice penale, il cui lavoro è rimasto chiuso in un cassetto.
Compiuti lunedì i 70 anni ha dovuto lasciare. E, nel farlo, non ha rinunciato ad assestare qualche sciabolata a chi, a suo avviso, porta una parte di responsabilità della crisi della giustizia. Compreso il ministro Andrea Orlando, che a fine anno non ha voluto firmare il decreto che avrebbe potuto posticipare di un anno l’esodo dei magistrati. «Mi duole dirlo, ma è più interessato a fare il segretario del Pd che il ministro della giustizia».
Si riuscirà mai a riformare la giustizia?
«Sono pessimista: nel corso degli anni ci hanno provato i governi di tutti i colori, con qualche diagnosi condivisibile, ma nessuno ci è riuscito. Ciò fa sperare male».
Qual è il problema principale?
«La lentezza. Una giustizia che arriva dopo anni e anni non è giustizia. C’è una sproporzione enorme tra mezzi a disposizione e obiettivi che ci si propone. Inoltre finora sono state fatte riforme settoriali, a pezzetti, mentre i codici sono organismi coerenti e unitari: non si può continuare a legiferare sull’onda dell’emergenza e delle emozioni, alla ricerca soltanto di consenso popolare».
Dunque?
«Copiamo dai sistemi che funzionano. Il nostro Paese ha una tradizione di cavilli e bizantinismi, soprattutto nella giustizia civile, e si compiace sulla sua decrepitezza. Il diritto dovrebbe essere un servizio, invece per noi è un feticcio da idolatrare».
E la magistratura?
«Tende a vedere la giustizia solo dal suo punto di vista, così come gli avvocati. Bisognerebbe ampliare le prospettive. Sono inorridito dalle ultime dichiarazioni del presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo: ha una visione mitica della magistratura».
L’opinione pubblica chiede severità, pene esemplari. Cosa ne pensa?
«La severità va chiesta alla politica: bisogna cercare di prevenire il crimine, di gestire i fenomeni sociali che producono reati. Quando si passa alla repressione lo Stato è già sconfitto. Chi commette un reato va ovviamente punito, ma dopo la sentenza. E in tempi brevi. Ma la punizione non è solo carcere: il concetto di sbarre e manette è obsoleto. La perdita di prestigio, ruolo sociale o politico a seguito di una condanna può pesare di più di qualche mese di carcere. Inoltre le pene alternative sono il futuro; la giustizia conciliativa o riparativa, che mette in contatto vittima e reo, è essenziale per certi tipi di reati, quelli colposi, ad esempio. La “pancia” dei cittadini non deve essere assecondata».
In 40 anni da pm a Venezia ha qualche errore da rimproversi?
«Negli anni ‘90, in occasione della Tangentopoli, ho chiesto misure cautelari non necessarie, anche se legittime. La giustizia non deve essere condizionata dall’indignazione dell’opinione pubblica. Sicuramente ho fatto altri errori: di colpa, non di dolo. Spero di non aver creato troppi danni...»
Qualcuno la rimproverava di non lavorare troppo...
«Un magistrato non deve lavorare tanto, ma bene. I libri che ho letto trascurando qualche fascicolo mi hanno liberato da qualche errore che avrei commesso. La cultura aiuta a riflettere, ad evitare i fanatismi: ai giovani colleghi consiglierei di passare qualche giornata a leggere Shakespeare» 
Di cosa va maggiormente orgoglioso?
«Dell’inchiesta sulle Br. Avevo 35 anni ed ero solo. Assieme a tanti bravi colleghi siamo stati in prima linea contribuendo a far uscire l’Italia da uno dei periodi più rischiosi per la nostra democrazia. E poi il Mose, un’inchiesta modello nella quale siamo riusciti a non far uscire una sola virgola delle intercettazioni non attinenti alle indagini. Dimostrazione che si può fare».
Rimpiange di non essere sceso in politica? Ci sta pensando ora?
«Nessun rimpianto. Un magistrato non deve fare politica: la sua visibilità può alterare le posizioni di partenza e ciò che ha fatto prima può essere interpretato come finalizzato alla candidatura. È questione di buon gusto. Ho ricevuto proposte, ma non ci penso neppure oggi».
Quali sono i progetti futuri di Nordio?
«Lettura, scrittura e sport».
Ultimo aggiornamento: 9 Febbraio, 08:20 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci