Il giudice: «Un carcere meno duro conviene a tutti, non è buonismo»

Lunedì 20 Agosto 2018 di Gianluca Amadori
Il giudice: «Un carcere meno duro conviene a tutti, non è buonismo»
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VENEZIA «Le statistiche del Dipartimento affari penitenziari parlano chiaro: solo il 19 per cento dei detenuti che ha usufruito di benefici di vario tipo torna a delinquere; la percentuale sale al 79 per cento nel caso di coloro i quali non usufruiscono di alcun beneficio penitenziario». Inizia dai numeri Giovanni Maria Pavarin, da quasi otto anni presidente del Tribunale di sorveglianza di Venezia, l’organismo della magistratura che ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena, ovvero di stabilire come debba essere scontata non appena diventa definitiva.
 Da quei semplici dati, frutto di una statistica del ministero della Giustizia, emerge con chiarezza che le cosiddette pene alternative al carcere (ma anche i permessi premio, la possibilità di lavorare) non sono un atto di buonismo fine a se stesso: prevederle conviene allo Stato, e dunque a ciascuno di noi, perché sono tese a restituire alla società persone che non commettano più reati. E dunque sono norme finalizzate ad elevare il livello di sicurezza, parola che va molto di moda in questi anni, oltre a garantire il rispetto di quanto prevede l’articolo 27 della Costituzione, ovvero che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Ogni anno i giudici di sorveglianza del Veneto (con sedi a Venezia, Padova e Verona) emettono circa 4 mila giudizi, a conclusione di una procedura che prevede, oltre allo studio della sentenza e dei precedenti penali, di acquisire anche una relazione delle forze dell’ordine e dei servizi sociali sulla personalità del reo. «Oltre alle carte deve essere sempre considerato l’elemento umano, altrimenti il giudice potrebbe essere sostituito da una macchina», spiega Pavarin, 63 anni, in Sorveglianza dal ‘97, dopo aver fatto il pretore a Rovigo e Lendinara.
Per il presidente della Sorveglianza il lato umano è essenziale: «Il nostro giudizio si fonda su una prognosi: sulla base degli elementi in mio possesso devo prevedere se in futuro quel condannato si comporterà bene, e dunque se posso concedergli la detenzione domiciliare, oppure l’affidamento in prova. Una scommessa difficilissima: e allora io voglio guardarlo prima negli occhi, discutere con lui, farmi raccontare la sua storia, capire se si è veramente ravveduto. Il fatto reato non è quasi mai isolato e deve essere inserito nel contesto della vita di una persona, per capire cosa è successo ed evitare che si ripeta. Nella maggior parte dei casi funziona, si capisce se uno mente per ottenere un beneficio».

L’approccio umano della giustizia di sorveglianza teorizzato da Pavarin ha anche un’altra finalità: «Gran parte delle persone reagiscono positivamente se trovano qualcuno disposto ad ascoltarli e a metterli al centro dell’attenzione, offrendo loro una possibilità di riprendersi la vita». Anche se qualche volta ci si sbaglia. «Succede ed è sempre un grande dispiacere. Ma accade anche di incontrare a distanza di anni chi ti ringrazia. Alcuni ex detenuti li rivedo e, scherzano, mi dicono di non far loro la predica...». Allora è vero che le contestano di fare più il parroco di provincia che il giudice? «Non mi riconosco proprio in quel ruolo. Il mio è un lavoro laico, anche se condivido il discorso che il Papa ha fatto tre anni fa ai penalisti: la pena non deve essere vendetta, ma una strada di ricostruzione. È ovvio che non per tutti è possibile, ma le statistiche dimostrano che è quella la strada. Nel corso degli anni, ho convinto anche i miei colleghi dell’utilità di ascoltare i condannati, di dare loro la possibilità di raccontarsi. La rieducazione funziona se viene offerto uno spunto credibile di nuova vita, se non ci si pone su uno scranno, guardando il reo dall’alto al basso».
La gestione degli stranieri pone problemi diversi e maggiori difficoltà rispetto ai detenuti italiani? «Tutto è più impegnativo, perché ci troviamo di fronte a mentalità e valori differenti, in base ai quali chi commette un reato non sempre è in grado di comprendere il disvalore di ciò che sta facendo. Ma quando si riesce a trattare i detenuti da uomini, è più facile avviarli in un cammino di ricostruzione».

La politica sembra intenzionata a tornare indietro rispetto alle esperienze fatto finora, a limitare al massimo le pene alternative al carcere. Cosa ne pensa? «Molte scelte politiche sono alimentate dall’emotività e con l’argomento della sicurezza si acquisiscono facili consensi. Prima di prendere qualsiasi decisione, inviterei i politici a visitare i penitenziari: tutti quelli che in passato lo hanno fatto, ne sono usciti cambiando idea. Più confischi la libertà, più peggiori le cose. Ad esempio sarebbe disastroso abolire la sorveglianza dinamica, quella che consente ai detenuti di trascorrere il tempo al di fuori delle celle, nelle quali rientrano solo per dormire. E poi bisognerebbe smetterla con i racconti non veri di celle con aria condizionata e ogni comfort. In Brasile stanno sperimentando una struttura aperta, senza sorveglianza, dove i detenuti si autogestiscono e nessuno scappa.»
Cosa ne pensa delle giustizia riparativa? «Fino a pochi anni fa si riteneva che il detenuto fosse chiamato a pagare un debito con lo Stato, ma ci sono anche le vittime da tenere in considerazione e da risarcire. La giustizia riparativa sta ottenendo risultati incoraggianti, grazie a percorsi che mettono in contatto le vittime con coloro i quali hanno fatto loro del male. Esperienze di questo genere sono state sperimentate con le vittime delle stragi, molti dei quali hanno scoperto che si può dare un senso al dolore. Probabilmente non si smette di odiare, né si riesce a perdonare, ma tutto è attenuato dopo aver toccato con mano il male». Lo slogan che va per la maggiore negli ultimi tempi è “certezza e severità della pena”: cosa ne pensa? «L’unica pena effettiva e certa è quella che riesce a rieducare il reo. Il carcere esaspera soltanto gli animi: più lunga e dura è la pena, più alimenta odio contro la società. La pena come castigo, come vendetta sociale non paga. La paura, peraltro, non ha alcun effetto dissuasivo: è necessario aderire, condividere una norma per non violarla». 
Nell’ambiente giudiziario veneto lei ha l’immagine di giudice severo e inflessibile. «A livello nazionale, tra i circa 200 giudici di Sorveglianza, vengo invece considerato tra i più aperti...». È vero che ha una posizione critica anche nei confronti dell’eccessivo garantismo? «Che senso ha la presunzione di innocenza per chi ha confessato? Siamo l’unico Paese che consente tre gradi di giudizio, e questa è una delle ragioni della lunghezza dei processi. L’eccessivo garantismo va nella direzione opposta alla rieducazione».
Negli ultimi anni si tende a delegare la soluzione di tutte le questioni alla giustizia penale: è una scelta che condivide? «Il diritto penale non può gestire tutti i problemi: una parte delle soluzioni devono essere fornite a livello sociale, di scelte politica. Il fenomeno dell’immigrazione è tra questi. Poi bisognerebbe riflettere su ciò che crea allarme sociale: oggi si è preoccupati di più da chi ruba una bicicletta, rispetto a bancarottieri che distraggono milioni di euro e spesso non finiscono in carcere».
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