Come si diventa neet? Stefano, 32 anni: «Umiliati, sbagliati, frustrati»

Domenica 3 Dicembre 2017 di Paola Treppo
Stefano Menolascina, 32 anni, di Cervignano del Friuli
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CERVIGNANO DEL FRIULI (Udine) - Perché si diventa “neet”? Quel termine che indica una persona giovane che non studia né cerca un impiego. Che non frequenta una scuola né un corso di aggiornamento. Ha il coraggio di raccontarcelo chi “neet” si sente e non ha paura di dirlo, Stefano Menolascina, 32 anni, di Cervignano del Friuli.

I primi ostacoli dopo la laurea 
«Conseguire al giorno d’oggi una laurea magistrale, uscire dall’ovattato mondo universitario e arrabattarsi a cercar lavoro significa incontrare ostacoli insormontabili e delusioni cocenti - dice -: è il destino di chi detiene una delle cosiddette “lauree deboli”, anche se ottenuta con il massimo dei voti e con la lode». Iniziano le vane e umilianti peregrinazioni dai Centri per l’Impiego alle Agenzie private di Somministrazione, le lunghe attese davanti agli sportelli, i colloqui con «addetti spesso annoiati, a volte infastiditi, raramente empatici e gentili».

L'invio di centinaia di curricula
Stefano racconta di “rituali d’ingresso” che si susseguono invariabilmente secondo lo stesso copione, «inesorabilmente identici, monotoni, frustranti, tanto nel pubblico quanto nel privato. Nasce qualche sospetto che le domande di routine servano esclusivamente ad arricchire le banche dati». S’inviano centinaia, se non migliaia, di curricula, corredati da opportune lettere di presentazione, ovviamente stilate ad hoc. «Si ha l’impressione di doversi pubblicizzare come merce in vendita. Ma raramente i curricula conducono all’agognato colloquio presso un potenziale datore di lavoro».

Tentare: si prova a lavorare gratis
«Ci si dichiara disponibili a tutto, anche a stage non retribuiti, a tirocini sotto pagati, persino a lavorare gratis». Al nulla di fatto segue la disperazione, per cui si finisce per rivolgersi ai Centri d’Orientamento, o a psicologi, con il risultato di «uscirne frastornati, con la consapevolezza di essere le persone sbagliate», al posto sbagliato, nel momento sbagliato.

«Frustrati, ci si auto accusa»
«Ci si rassegna a gravare ulteriormente sul magro bilancio familiare e ci s’imbarca in uno dei costosi Master post lauream proposti dalle varie università. Ma, poiché la situazione resta immutata, ci si auto accusa per aver voluto assecondare le proprie inclinazioni, disobbedendo alla ferrea volontà del "Dio Mercato", che esige informatici, ingegneri, tecnici, non certo degli umanisti. A che servono, infatti, le persone che possiedono una cultura, magari vasta, poliedrica e plurilinguistica? Non sono certamente utili a una società globalizzata e tecnologicamente avanzata; senza dubbio non sono le risorse necessarie ai mercati, alle aziende, alle multinazionali».

Il flop del progetto Garanzia Giovani
Per Stefano è stato un disastroso flop il tanto atteso progetto Garanzia Giovani, che si sperava avrebbe risolto il problema dell’inoccupazione «o perlomeno ci avrebbe condotto all’acquisizione dell’esperienza indispensabile ad accedere al mondo del lavoro - dice -. Nella maggior parte dei casi la pluriennale iscrizione al piano non sortisce né lavoro, né esperienza, né formazione; sovente tutto si risolve in un colloquio con il personale dei Centri per l’Impiego e nella stesura di un Piano d’Azione Individuale che non genera nessuno degli effetti auspicati».

Pesare sulla famiglia 
Per rendersi più appetibili agli occhi del mercato, si affrontano allora ulteriori esborsi, sempre alle spalle della famiglia, per colmare le lacune della propria formazione: si seguono corsi ad hoc e s’intraprendono percorsi di studio e lavoro all’estero. «Al ritorno in Patria ci si scontra con le dure leggi di un mercato che non valorizza conoscenze, competenze e talenti. Le barriere innalzate dalle aziende e dagli intermediari sono insormontabili: è indispensabile risiedere nelle immediate vicinanze del luogo di lavoro; inutile dichiararsi disponibili a trasferire il proprio domicilio; è tassativo non aver superato l’età d’apprendistato; è categorico aver maturato una pluriennale esperienza specifica».

Colloqui grotteschi
Per Stefano, i pochi colloqui che si riescono a spuntare a volte conducono a episodi paradossali e grotteschi, se non fossero frustranti e tragici. «Si può essere arruolati “in prova” per solo un giorno e, concluso il lavoro necessario, essere congedati con pochi soldi a titolo di rimborso spese, con i pretesti più astrusi, magari affermando che non c’è stato feeling con le colleghe. Si può essere criticati e messi in discussione non per gli skills, ma per lo standing non sufficientemente curato, o perché il paletot non ricade con un perfetto aplomb».

«Un sistema perverso»
Durissimo e crudo, Stefano: «Si può essere convocati per un colloquio, percorrere decine di chilometri e sentirsi riferire che il responsabile del personale o il titolare dell’azienda sono indisposti, per cui l’incontro è rinviato sine die. Anche le più estenuanti e caparbie ricerche di lavoro finiscono per essere vanificate da un “sistema perverso”: aziende e intermediari non attestano la ricezione del dossier di candidatura, i selezionatori, dopo il colloquio, o non forniscono il feedback fondamentale per migliorare le proprie performance, oppure lasciano l’aspirante lavoratore in perenne attesa di Godot, trincerandosi dietro un silenzio assordante. Se osiamo sollecitare il responso utilizzando il perentorio linguaggio giuridico, talvolta veniamo liquidati con risposte monolitiche, preconfezionate, generiche, elusive, a volte scortesi».

Ecco come si diventa neet
«Abbiamo l’impressione di esserci auto lesi, poiché abbiamo osato troppo, apparendo così fastidiosi e importuni». «Ecco perché frustrati, delusi, finiamo per arrenderci, per vivere alla giornata, per sentirci ormai vecchi, sfiniti e privi di speranza a 30 anni. Non ci è nemmeno concessa la chance di reinventarci imparando un mestiere: l’età d’apprendistato termina a 29 anni. Siamo diventati dei neet».
Ultimo aggiornamento: 4 Dicembre, 15:31 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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