Velo islamico al lavoro, le imprese del Nordest: «Qui il divieto non serve»

Mercoledì 15 Marzo 2017
Velo islamico al lavoro, le imprese del Nordest: «Qui il divieto non serve»
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TREVISO - Le imprese del Nordest non tolgono il velo. E non tanto per una questione di principio, ma perché quello dei copricapi islamici femminili o di altri segni religiosi non è problema all’ordine del giorno. Così la sentenza della Corte di giustizia europea, che ha respinto il ricorso di due donne mussulmane in Francia e in Belgio, licenziate per non aver voluto togliersi il velo, delinea un orizzonte ancora piuttosto lontano da queste latitudini. 
Nei due stabilimenti di Castelfranco e Resana (Treviso) della “Global Garden Products”, multinazionale tra i principali produttori europei di tagliaerba e altri apparecchi per giardinaggio, al picco stagionale lavorano complessivamente circa 550 operai. La metà circa sono stranieri, moltissimi originari del Maghreb e dall’Africa Centrale. E una larga parte sono di fede mussulmana. Tanto che, qualche anno fa, l’azienda ha allestito, per loro, in un locale interno una piccola sala di preghiera. «I dipendenti si fermavano a pregare dove capitava e così abbiamo voluto dare loro uno spazio adeguato – spiega il responsabile delle risorse umane Massimo Bottacin –. Abbiamo sempre affrontato eventuali questioni relative ai nostri lavoratori islamici in modo molto sereno e pragmatico. Ad esempio, riguardo alle limitazioni alla dieta, abbiamo previsto una maggiore varietà nei menu. Quello del velo però è un problema che non abbiamo mai dovuto affrontare, né che ci è mai stato posto, forse anche perché, in maggioranza, i nostri addetti sono uomini». E se un domani un’operaia volesse tenere il capo coperto con il tradizionale foulard? «Come azienda – risponde Bottacin – forniamo degli indumenti di lavoro ai dipendenti. Qualora volesse indossarlo e non contrasti con le prescrizioni di sicurezza o con lo svolgimento delle mansioni produttive, non vedo perché dovrebbe riguardarci».
Si dirà: metalmeccanico, attività fortemente maschile, per giunta svolta al chiuso di una fabbrica, ovvio che la questione abbia scarsa rilevanza. Puntiamo allora al settore socio-sanitario, ad altissima concentrazione di occupazione femminile, spesso anche immigrata, e a diretto contatto con il pubblico. “Insieme si può” è una delle maggiori cooperative sociali del Veneto. Conta 1.350 soci-lavoratori, di cui le donne rappresentano il 96%. Tra queste, 282 hanno 33 nazionalità diverse da quella italiana. «C’è una sola nostra socia che indossa lo hijab (il velo che lascia scoperto il volto, ndr.) – spiega la presidente Paola Pagotto –. Non abbiamo mai riscontrato problemi né dai colleghi, né dagli utenti o dai loro familiari. Se in futuro dovessero manifestarsi, regolamenteremo anche questo aspetto, partendo da una posizione di buon senso, così come abbiamo fatto, ad esempio, per la necessità di adottare un abbigliamento dignitoso e professionale. In effetti – sorride la presidente –, finora più che chiedere di scoprirsi, alle volte c’è stata l’esigenza di coprirsi un po’ di più». C’è chi vorrebbe vietare il velo per legge: «Più che proibire per legge – osserva Pagotto – sarebbe importante che l’azienda potesse regolarne al suo interno l’uso.
Noi siamo una coop di ispirazione cristiana, nel mio ufficio è appeso un crocefisso, ma non ritengo debba esser imposta né l’adozione, né l’eliminazione di un simbolo religioso ad alcuno». 
 
Ultimo aggiornamento: 16 Marzo, 08:15 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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