Il trevigiano che guida la ristorazione di una delle catene di hotel più grande d'Italia

Giovedì 16 Agosto 2018 di Valentina Dal Zilio
Il trevigiano che guida la ristorazione di una delle catene di hotel più grande d'Italia
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Andrea Cartapatti, trevigiano, 51 anni è Direttore Food & Beverage di Blu Hotels che, con 31 strutture e un milione e 600mila pasti serviti all'anno, è tra le più grosse catene alberghiere d'Italia. 

Un passato tutto nel mondo delle compagnie alberghiere, dopo varie esperienze di studio e di lavoro sia in Italia che all'estero, Cartapatti lavora per catene internazionali come Belmond e in alberghi di rilevanza mondiale come il Badrutt's Palace di St. Moritz. Quindi dopo dieci anni in Atahotels, fino al 2015, approda in Blu Hotels. «La nostra è una realtà molto varia che si rivolge, per vocazione, prioritariamente alla famiglia italiana, ma che guarda anche ad un pubblico come quello degli hotel a 5 stelle, dei golf resort e degli eventi congressuali. Una realtà policroma che richiede un approccio trasversale, capace di coniugare la natura centralizzata di un grande gruppo alberghiero con l'identità propria delle singole strutture di cui vogliamo mantenere il tratto tipicamente territoriale e regionale».

Il suo lavoro in pratica in cosa consiste?
«Mi occupo di ristorazione a tutto tondo, dalla scelta dei fornitori all'elaborazione delle carte. Dal budget del dipartimento F&B alla scelta dei prodotti, all'elaborazione degli standard di servizio».

Un lavoro sognato o un approdo casuale?
«Un lavoro sognato per caso. Quello per la ristorazione alberghiera è stato un colpo di fulmine che ho avuto a 18 anni girando gli hotel come cliente. Una passione poi alimentata grazie a Giacomino dell'Incontro: è lui che mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova con esperienze di studio e professionali mirate, sia in Italia che all'estero».

E' un trevigiano nomade: come viene vista la città nel resto del Belpaese?
«Sono nato, cresciuto e tuttora vivo in questa città stupenda. Mia mamma era della Pescheria, papà del Duomo: giro tanto per lavoro ma appena posso torno tra le mie Mura. Treviso nelle tavole d'Italia è: Tiramisù e Prosecco, senza dimenticare radicchio e magari anche la soppressa». 



Sul Tiramisù il Friuli c'entra?
«Il Tiramisù anzi tiramesù, come depositato dall'accademia della cucina, per me è a tutti gli effetti trevigiano. Non si discute. L'origine del dolce porta al cuore della nostra città: le case chiuse, la ricetta codificata e riconosciuta, la patria potestà delle Beccherie. I miei tiramisù del cuore in città sono ovviamente quello del luogo che gli ha dato i natali e quello di Alessandro Ardizzoni...».

Prosecco: bolla o sostanza? 
«Fa specie che il territorio originario e vocato alla produzione di questo vino sia stato un po' penalizzato con l'estensione a molte altre province di Veneto e Friuli fatta salva la Docg che è rimasta nel suo territorio e che non a caso ha una candidatura a patrimonio Unesco».

Ce la faranno le colline?
«Le potenzialità ci sono, bisogna rivedere l'utilizzo di alcuni prodotti. Ma io mi sento patriotticamente positivo». 

Qual è lo stato di salute della cucina trevigiana? 
«C'è molto fermento, penso sia uno dei periodi migliori. Una volta c'erano molti ristoranti che offrivano prodotti tipici quando l'approvvigionamento direttamente da contadini e produttori era più facile. Ma era una cucina più pesante, un po' unta, con piatti di recupero. Oggi, come ci ha insegnato il maestro Gualtiero Marchesi la cucina deve togliere, semplificare. Si lavora sulle cotture per percepire la qualità delle materie prime. In città stanno crescendo ristoranti ma anche piccoli bistrot. A mio gusto tra gli chef di spicco segnalerei il rivoluzionario Francesco Brutto della Undicesimo Vineria, Manuel Gobbo delle Beccherie e per i locali più informali, Michela del Cavastropoi. Ottima la partenza di Stefano Zanotto nella nuova location a San Tomaso. Ma la città sta avendo un'evoluzione e delle conferme a 360 gradi: penso al Basilisco, al Cae de Oro, al Basilico Tredici. E poi restano i padri della cucina trevigiana, Giacomino e Alfredo». 

Le osterie?
«Quelle vere non esistono più, si sono evolute. Ma il cambiamento della ristorazione è sempre necessariamente legato all'evoluzione del tessuto sociale. Da ragazzino andavo al ristorante con i miei per mangiare, nei dì di festa, il filetto; oggi si cercano invece i piatti della tradizione magari rivisitati e la bistecca la gente la mangia a casa. Una volta d'altronde mamme e nonne spesso non lavoravano, seguivano la casa e cucinavano piatti lunghi e laboriosi, oggi le donne lavorano e le preparazioni lunghe sono impensabili dati i ritmi».

Ai giovani che vogliono lavorare nella ristorazione cosa consiglia? 
«Di studiare lingue, materie umanistiche, di interessarsi all'arte in tutte le sue espressioni e di non fossilizzarsi solo negli studi di carattere alberghiero. Bisogna avere un approccio aperto e sensibile al bello. Bisogna essere curiosi e approfondire gli aspetti culturali dei nostri territori. Bisogna provare tutto perchè solo così si può avere visione completa di un prodotto, di un piatto e, piatto dopo piatto, prodotto dopo prodotto, anche di alcuni aspetti sociali e storici. Non a caso il mio hashtag è #perdereunsaporeèperedereunsapere». 
Ultimo aggiornamento: 17 Agosto, 15:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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