Il Veneto e il modello svizzero: «Così ricostruiremo i boschi»

Lunedì 5 Novembre 2018 di Angela Pederiva
Il Veneto e il modello svizzero: «Così ricostruiremo i boschi»
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Dalla strage alla rinascita: come sulle Alpi svizzere, così anche sulle Dolomiti venete. Sarà seguito il modello di ricostruzione boschiva testato dalla Confederazione Elvetica, dopo la terribile tempesta Lothar che nel 1999 falciò in poche ore 10 milioni di alberi, nelle aree del Bellunese (nonché del Vicentino e del Trevigiano) flagellate dalle raffiche di vento a 190 chilometri orari. «Un'esperienza che ci insegna a non usare la stessa ricetta dappertutto, ma a valutare zona per zona gli interventi da realizzare e gli errori da evitare», anticipa il professor Tommaso Anfodillo, direttore del Centro studi per l'ambiente alpino di San Vito di Cadore e presidente del corso di laurea in Scienze forestali e ambientali all'Università di Padova, il cui dipartimento Territorio sarà il partner tecnico della Regione in questa operazione.

 
Dunque ci vorranno 100 anni, per rivedere i boschi com'erano e dov'erano?
«Anche 150. Premesso che per un inventario effettivo sarà necessario almeno un altro paio di settimane, le prime ricognizioni aeree evidenziano i tipici danni da vento a spot: versanti sopravento molto colpiti e versanti opposti pressoché intatti, quindi perdite non diffuse ma localizzate, benché su ampie superfici. Quindi bisogna fare presto a strutturare il piano, ma sapendo rispettare i tempi della natura. Del resto queste foreste esistono da sempre e sanno benissimo gestirsi da sole, di conseguenza non hanno bisogno dell'uomo, casomai è l'uomo che ha bisogno di loro in quanto erogatrici di beni e servizi: il legno, la protezione dalle valanghe, la bellezza che consente le passeggiate».
La stima della Regione è di 100.000 ettari devastati in Veneto: è davvero possibile ripartire dopo una simile furia?
«La situazione è pesante, ma non la farei così catastrofica. In ecologia li chiamiamo eventi di disturbo, localizzati nello spazio e nel tempo, episodi naturali che possono capitare con più o meno frequenza e violenza. Ma il precedente di Lothar ci dà il supporto tecnico-scientifico per ricostruire i boschi di abete rosso, pino silvestre, larice».
Comincerete con la rimozione delle conifere cadute?
«Questo aspetto è in discussione: non è sempre detto che rimuovere tutto favorisca la ripresa della rinnovazione, cioè la sostituzione degli alberi adulti da parte di piantine giovani. Due i motivi, verificati proprio dagli svizzeri: da una parte le piante abbattute sono sostanza organica che si degrada e fertilizza le nuove piantine, dall'altra l'esbosco meccanizzato comporta un rischio di compattazione ed erosione del suolo che può fare danni. Per questo ogni singola zona andrà studiata, in base alla sua estensione, alla vicinanza di strade, alla sua pendenza, alla tipologia e condizioni della flora, in modo da attuare iniziative mirate. Si agirà su due piani». 
Quali?
«Un primo livello istituzionale-organizzativo: la Regione promuoverà, con il supporto scientifico dell'Università, i tavoli di lavoro per definire le strategie comuni. Un secondo livello tecnico-operativo: indicazioni condivise sull'opportunità o meno di procedere con l'esbosco e sulle azioni di rimboschimento con materiale vivaistico oppure con la rinnovazione naturale, attraverso la dispersione dei semi da parte delle piante rimaste in piedi. Parliamo di superfici enormi, ma che andranno comunque lavorate pezzetto per pezzetto e per farlo ci vorranno anni, per questo sarà fondamentale il coordinamento regionale. Ma in fondo questa può essere anche un'opportunità per ricostituire un rapporto tra la Regione, l'Università e gli enti territoriali, trovando in questo disastro le forze e le motivazioni per superare i blocchi. Il corso di Scienze forestali che dirigo ha tanti esperti che si occupano di meccanizzazione, rimboschimenti ed ecologia forestale, per cui siamo a disposizione».
Dove finirà il legno rimosso?
«Idealmente sul mercato, in parte come biomassa e, soprattutto nel caso dei fusti sradicati ma rimasti interi, nell'industria del mobile. Il punto critico è che, con un'offerta così grande e localizzata, i prezzi tenderanno inevitabilmente a diminuire, per cui bisognerà cercare di salvaguardare i proprietari, immagino con l'intervento della Regione e del Governo». 
Quali pericoli di smottamento si porranno a causa dei boschi schiantati?
«Il precedente svizzero dice che, se lasciati a terra, i fusti non causano grossi problemi di erosione: le piantine crescono abbastanza velocemente, intendo ovviamente in rapporto ai tempi della natura e quindi nel giro di una decina d'anni, tornando a rinsaldare il terreno attraverso la funzione di trattenimento del suolo da parte delle radici. Un po' più di erosione si verifica invece se la superficie viene esboscata con i mezzi meccanici, per questo bisognerà dosarne l'impiego e preferire magari le teleferiche, cioè sistemi di trasporto degli alberi simili a funivie che li sollevano da terra».
La scomparsa di porzioni di foresta può essere un guaio anche per gli animali?
«Caprioli e cervi tendono a spostarsi spontaneamente dalle zone danneggiate, per cui non penso ci siano grandi problemi per la fauna. Piuttosto bisognerà stare attenti all'infestazione di insetti e parassiti attirati dal materiale a terra, come ad esempio il bostrico, che può attaccare le piante vive».
Ripercussioni per i turisti?
«Per il momento è meglio che evitino di andare per boschi e lascino lavorare gli addetti all'emergenza. Ma quando la situazione si normalizzerà, non abbandonino la montagna. Questo evento ci deve far riflettere sul fatto che basta poco perché quello che esiste da prima dell'uomo venga spazzato via».
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