La fine del Pd e le 3 vittorie della Lega di Salvini-Zaia

Martedì 6 Marzo 2018 di Roberto Papetti
Zaia con Salvini
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Come è successo spesso negli ultimi tempi, non solo in Italia, il risultato elettorale ha colto anche questa volta di sorpresa analisti e sondaggisti. Si sapeva che, anche per i meccanismi della legge, sarebbe stato difficile vedere uscire dalle urne una maggioranza autosufficiente. Quasi nessuno aveva previsto però le dimensioni quasi bulgare del successo dei Cinque stelle al Sud, il disastro epocale del Pd e il netto sorpasso della Lega dentro il centrodestra. Ma al di là dei semplici dati numerici, la giornata di domenica ci consegna alcuni fatti che meritano di essere approfonditi.

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Il primo è che, con la sconfitta di domenica, si conclude definitivamente la parabola politica dell'ex Pci. Non era mai accaduto nella storia italiana che il principale partito di sinistra fosse per numero di parlamentari la quarta forza politica: dopo le elezioni di domenica è esattamente così. Cosa succederà nel Pd lo capiremo nelle prossime settimane, ma l'esperienza politica, nata sulle ceneri del Partito comunista e passata attraverso quattro cambi di nome, è giunta al termine.

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E il flop di Liberi e Uguali è lì a dimostrare che la débacle non è colpa delle scissioni (sommando i voti di Pd e LeU non si arriva comunque al 23%), ma di una proposta e di un messaggio politico che non sono in sintonia con la grande maggioranza del Paese, neppure di quelle fette d'Italia che in passato hanno reso forte la sinistra. Renzi porta certamente una grande responsabilità in tutto questo.

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La sua crescente antipatia, la spregiudicata gestione del potere da parte del suo cerchio magico, le vicende bancarie e altro ancora hanno accelerato e reso più evidente il disastro. Ma è difficile pensare che un'altra leadership avrebbe ottenuti risultati molto diversi. Il problema non è chi guida la sinistra, ma la sinistra stessa: la sua strategia e le sue parole d'ordine. Tutte da ripensare e reinventare. E non è affatto chiaro come e da chi.
La seconda certezza è che a centrodestra non si è semplicemente verificato il sorpasso leghista sul partito di Berlusconi. Il voto di domenica ha cancellato ogni velleità di grande intese tra Pd e Fi (uniti non arrivano al 35%) e insieme posto le basi per la nascita a centrodestra di un nuovo soggetto politico nazionale, il cui leader naturale, allo stato dei fatti, non può che essere Matteo Salvini e le parole d'ordine prevalenti quelle della Lega. Forza Italia, pur ottenendo un risultato rispettabile, ha mostrato tutta la fragilità di un partito incapace di rinnovarsi e troppo legato ai destini (ed all'età) del suo fondatore. Il ritorno in campo di Berlusconi ha riportato attenzione politica (non solo positiva) e consensi al movimento azzurro, ma ne ha evidenziato anche i limiti e l'usura. Forse è ancora troppo presto per parlare della fine dell'esperienza di Forza Italia, ma, per la prima volta dal 1994, con il voto del 4 marzo si delinea un centrodestra che non ha più in Berlusconi e nel suo movimento il suo punto di riferimento. Ciò che accadrà in futuro dipenderà molto anche dalla capacità di Salvini di indossare davvero i panni del leader nazionale e intercettare consensi anche nel Sud del Paese.

Il terzo elemento di riflessione riguarda il Nordest. All'interno del successo nazionale della Lega, emerge quello, per taluni aspetti eclatante, del Veneto. Nella terra del governatore Zaia, la Lega è riuscita in un triplice obiettivo. Ha superato da sola il 30%, ha triplicato il numero i voti di Forza Italia e soprattutto, caso unico a livello nazionale, ha fermato il Movimento 5Stelle che in Veneto, rispetto alle elezioni politiche precedenti, non solo non è cresciuto ma è leggermente calato. Un risultato che si è certamente giovato dell'onda lunga nazionale salviniana, ma che molto deve alla leadership trasversale di Zaia e al profilo di partito di governo e di lotta che ha saputo dare al Carroccio veneto. Risultati che rendono il governatore veneto, volente o nolente, uno dei possibili protagonisti delle prossime settimane e dei prossimi mesi.

Infine il Movimento 5Stelle. Vincitore indiscusso soprattutto grazie al vento del Sud che, sospinto dalla prospettiva del reddito di cittadinanza, ha tributato ai grillini in alcune aree del Meridione oltre il 50% dei voti. Di Maio e i suoi, forti del risultato, non fanno mistero di voler andare al governo. Ma la proposta politica resta vaga e misteriosa. M5s è passato dal vaffa di grillina memoria ai toni felpati e dorotei dei giovani eletti benvestiti che l'altra sera, a urne chiuse, sono sfilati davanti al video.

Messaggi rassicuranti, mai un tono sopra le righe, conclamata disponibilità al dialogo con le altre forze politiche e alla trattativa. Su cosa, però, non è chiaro. Soprattutto non è chiaro cosa il M5S, sul piano dei programmi, sia disposto a mettere sul piatto per convincere altri partiti, o pezzi di essi, ad allearsi e formare una maggioranza di governo. Casaleggio, Di Maio e i vertici del Movimento sanno che devono capitalizzare il successo elettorale. Non possono rimanere a mani vuote.

Il problema è il come. L'alleanza con Salvini, sgradita alla base leghista, era già assai improbabile prima del 4 marzo. Oggi lo è ancora di più perché Salvini, impegnato a consolidare la sua leadership nel centrodestra, ha ben poco interesse a stringere alleanze con M5s.

Ultimo aggiornamento: 7 Marzo, 08:02 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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