L'ex arbitro che auita i ragazzi. «Quel politico che ci donò tutta la sua liquidazione...»

Lunedì 19 Giugno 2017 di Edoardo Pittalis
Aldo Bertelle
Chi è Aldo Bertelle?
«Un contadino ed è vero, poi sono diventato un contadino del mondo educativo. Vengo da una famiglia che ha conservato tutto il positivo e anche il fatale di quel mondo. Mio nonno morì sul Tagliamento nel 1917 dopo Caporetto e affidò al figlio di sei anni le sorelline e la mamma. Il tempo faceva diventare i bambini subito adulti. La vita mi ha riservato una fanciullezza difficile, ma strada facendo ho capito che Dio è un eccellente ragioniere che non sbaglia i conti».

A Facen di Pedavena, proprio dove le colline diventano montagne, la Comunità di Villa San Francesco accoglie decine di ragazzi in difficoltà e li aiuta soprattutto a studiare, li prepara al lavoro e alla vita. Oggi ci sono anche: Marcelle, di origini brasiliane, che è la prima che fa il ginnasio dopo 42 anni; in cucina c'è Jodit che viene dall'Etiopia, è qui da 11 anni, ha il diploma dell'Alberghiero e un contratto. E c'è Issa che viene dal Mali e lavora con contratto regolare. È così da quarant'anni, prima era una colonia del Cif di Venezia per bambini fragili, poi è diventata la loro casa: in meno di settant'anni ne sono passati seimila. La Villa apparteneva all'ingegnere Ugo Gobbato, direttore dell'Alfa Romeo che fu ucciso da partigiani a Milano nei giorni della Liberazione. La famiglia donò la villa per trasformarla in una casa per bambini bisognosi. Era il 1948 e incominciò il cammino che porterà alla Comunità. Aldo Bertelle, 64 anni, c'è da quando era studente e non è più andato via. 

Come è arrivato a Villa San Francesco?
«Questa era una colonia e serviva qualcuno che sostituisse le due vigilatrici che dovevano assentarsi per il concorso magistrale. Tutto è incominciato così, era il 13 dicembre giorno di Santa Lucia. A me piaceva fare l'università e, soprattutto, fare l'arbitro di calcio e avevo davanti una brillante carriera. Ho dato le dimissioni e per anni mi sono tappato le orecchie davanti alla radio per non sentire parlare di pallone. Poi il 31 ottobre 1974 è arrivata una telefonata da Venezia. Era Maria Monico, la presidente del Cif, urlava che dovevo andare a Facen per sette giorni perché la direttrice era stata ricoverata. Alla Monico nessuno diceva di no, nemmeno i patriarchi, la chiamavano la generalessa. La povera direttrice morì di broncopolmonite e io sono ancora qui che aspetto un sostituto».

Come ci si prepara a capire le sofferenze degli altri?
«Un giorno ho trovato mia madre paralizzata nella stalla dove stava mungendo. Ho imparato che la sofferenza è una componente normale della vita. Mia madre non poteva muoversi e non poteva parlare, tre mie zie analfabete venivano e stavano là mute, in silenzio. Ma c'era un dialogo tremendo tra di loro. A me è servito per capire come avvicinarsi al mondo della sofferenza, per capire cosa vuole dire la solidarietà. La vita della famiglia ruotava attorno alla cucina grande dove stava mia madre paralizzata. La riabilitazione era domestica, a base di massaggi di canfora e di grappa. Era data per morta, ho ancora dentro la testa l'urlo di mia sorella venuta dalla Svizzera, col vestito nero per il lutto: Ma mare la cammina! . Poi ebbe un altro attacco e non parlò più. Ma noi per anni continuavamo a parlare con lei, sapevamo che ci capiva».
 
Questo che tipo di lavoro è?

«Non si può programmare. È straordinario, difficile, rischioso. Al centro ci sono loro, i giovani in difficoltà: devi capire quando serve stare davanti e quando dietro, o scomparire. Devi riuscire a contare i loro colpi di tosse. Ieri mattina, quando sono andato a svegliarli, ho visto che il letto del musicista era tutto sottosopra, quello del fratello era ordinatissimo. Sono i due ultimi ragazzi arrivati. Uno si è portato dietro una chitarra e un amplificatore, voleva fare il concertista senza conoscere la musica. La comunità ha la santa abitudine di seguire i sogni, ma non può viverli al loro posto: a suonare bisogna che suoni tu. C'erano dodici bambini bielorussi allora, ho detto al musicista: Fai un concerto per loro. Ci ha creduto. Adesso studia a Belluno al liceo musicale. Il fratello fa la terza media e sogna di aprire un salone di parrucchiere».

Qual è stato il momento più importante?
«Quando si avverò il sogno di dare casa a questi ragazzi, non c'era corrente, né acqua. Ci fu il concorso di tanti amici, artisti, politici, imprenditori, giornalisti come Orazio Carrubba. Nessuno ha mai chiesto qualcosa in cambio. L'ex assessore regionale Felice Dal Sasso, democristiano, regalò alla comunità l'intera liquidazione, 350 milioni di lire. È la prima volta che svelo questo segreto».

E il momento più difficile?
«Non avevamo fatto i conti con la tremenda nevicata del 1985, una cosa fuori dalla storia. Si fermò tutto, crollò tutto. Ho pianto, non trovavamo più due bambini di seconda elementare, li abbiamo trovati nelle serre, erano là che mettevano al riparo le primule! Li abbiamo estratti prima che crollasse tutto. Avevamo perduto ogni cosa. Mi telefonò monsignor Loris Capovilla, l'ex segretario di Papa Giovanni XXIII: Non preoccuparti, si va avanti. Tre giorni dopo arrivò una raccomandata con un assegno di un milione, È l'obolo di un amico. Andammo da Maria Aduso che fabbricava serre e mobili, una donna giunonica. Avevamo bisogno di serre per ripartire col lavoro. Lei chiese prima di vedere dove ghe dorme i tosi, che erano cinquanta. Vide i vecchi letti del 1948, ancora legati col filo di ferro. Tornò in fabbrica e ci mandò 50 letti, 50 comodini, 50 armadi. Tutto in regalo».

Qualcuno dice che lei parla con i Papi?
«No, ma li ho incontrati tutti. Papa Luciani veniva da Patriarca, una volta ha brindato con noi a Capodanno. Un giorno gli ho detto che presto avremmo aggiunto una lapide sui Papi, c'era già quella per Giovanni XXIII, mi rispose con un'occhiata glaciale: Non devi dirlo neanche per scherzo. Aveva qualcosa di speciale e si capiva».
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