Il bandito ucciso e gli applausi: «Così è morta anche la pietà»

Mercoledì 26 Aprile 2017 di Alda Vanzan
Bettin e Zecchi
20

Fanno discutere gli applausi-choc alla manifestazione veronese della Lega sulla legittima difesa di martedì scorso: durante il racconto di Giuseppe Maiocchi, il gioielliere milanese che 13 anni fa sparò assieme al figlio a due rapinatori, la platea di seimila persone è esplosa in un’ovazione. È stato quando l’imprenditore ha ricostruito la vicenda raccontando che il quarto colpo - quello sparato dal figlio - raggiunse il bandito alla nuca uccidendolo. Abbiamo chiesto a un sociologo e a un filosofo di idee politiche diverse - Gianfranco Bettin e Stefano Zecchi - come spiegano quell’applauso da stadio.

IL PARERE di Gianfranco Bettin - Sociologo, scrittore, politico e amministratore di sinistra, oggi presidente della Municipalità di Marghera: è normale l’applauso choc della platea leghista a Verona?
«È normale in queste condizioni. Negli ultimi anni si sono presentati con un impatto fortissimo dei reati che hanno un carattere diverso dagli altri, crimini predatori all’interno dell’attività commerciale o addirittura in casa. Anche se questo tipo di reati è in calo dal punto di vista numerico, l’impatto è profondo e chi vi assiste introietta un senso di paura e di indignazione che non hanno tanti precedenti e questo prepara il terreno a quella reazione che si è vista a Verona oppure a reazioni come le ronde o i controlli di vicinato. Un’altra componente di quell’applauso è il senso di impotenza».
Il fatto di non sentirsi protetti?
«Esatto, ma non del punto di vista delle forze dell’ordine, quanto delle pene: si ha l’impressione che chi commette questi reati non paghi mai. E questo prepara il terreno ad atteggiamenti del tipo: siccome lo Stato non ti tiene in galera, io non solo mi difendo, ma ti stendo, mi faccio giustizia da solo».
Influisce il fatto che si tratti di stranieri?
«I protagonisti delle aggressioni più enfatizzate sono stranieri. È normale che sia così perché la criminalità straniera e soprattutto dell’est è quella che ha più praticato il crimine predatorio ed efferato: Gorgo è un caso esemplare. Va anche detto che la presenza di italiani è però molto frequente: nella nostra amata Mestre gli ultimi tre delitti in casa sono stati fatti da italiani. Quando però sono stranieri, c’è l’elemento dell’alieno».
Quanto incide la politica in quell’applauso?
«La componente decisiva è forse proprio il ruolo della politica che si divide in fazioni e trasforma i rispettivi seguaci in tifosi. Nell’applauso vedo la vicinanza a un imprenditore che racconta un momento in cui stava per diventare vittima e ha reagito. Ma l’applauso ha anche un contenuto liberatorio perché la persona depredata diventa giustiziere. “Arrivano i nostri”, come al cinema. Solo che “i nostri” sono la vittima stessa. Ma è evidente che in una platea politica come quella di Verona, platea di un partito che dell’intransigenza ha fatto una bandiera, c’è anche uno schieramento un po’ da tifosi. E il rischio è di snaturare i nostri valori. Chi ha applaudito dovrebbe riflettere sulla cupa euforia della vendetta e dovrebbero ragionarci anche i responsabili della cosa pubblica: l’occhio per occhio rischia di renderci tutti ciechi».

IL PARERE di Stefano Zecchi - Docente di Filosofia, scrittore, politico del centrodestra (ma lui preferisce definirsi del “centro”), già consigliere comunale a Venezia per Forza Italia e poi per la lista Brunetta: come giudica l’applauso choc della platea leghista a Verona?
«Io la cosa la vedo così. Da un punto di vista della rappresentazione estetica è stato un crescendo wagneriano. Trovo che la regia sia stata involontaria a tutto questo, non ci vedo qualcosa di preordinato. Infatti uno si aspettava il silenzio, la commozione e invece quello che aumenta è la tensione verso la incapacità delle istituzioni di proteggere il cittadino. E così quando si arriva al gesto risolutore è proprio una esplosione, lì chi ascolta vede la soluzione dei suoi problemi».
È accettabile?
«Da un punto di vista morale è chiaro che di fronte a un omicidio causato anche da giuste posizioni di autodifesa ci si aspetta il silenzio. E quindi da un punto di vista morale ci può essere una condanna. Ma qui siamo di fronte a una psicologia di massa. Sono convinto che il singolo, ascoltando lo stesso racconto, non si mette ad applaudire. Qui invece c’è un coinvolgimento di massa. Poche volte si ragiona sulla psicologia di massa e come questa cambi le psicologie individuali. L’esempio è quello del branco: molti giovani non farebbero quello che fanno all’interno del gruppo. Il gruppo si esalta e va sempre in una direzione trasgressiva».
Perché si arriva a questo?
«C’è poco da fare: c’è un aumento della criminalità che il più delle volte è imputata a extracomunitari, anche se spesso le vittime non sono necessariamente extracomunitari, ma la psicologia di massa coinvolge tutto in una stessa dimensione. Alla percezione psicologica del pericolo c’è una constatazione oggettiva di situazioni che in fondo dovrebbero essere messe in sicurezza dalle istituzioni. E qui vedo un senso di ribellione nei confronti dello stato di diritto che non fa quello che dovrebbe fare. Faccio un esempio: un ragazzo che va a scuola dovrebbe essere curato e difeso. La sensazione è di non essere tutelati».
Cosa pensa di tutto ciò?
«Penso che tutto ciò sta portando a una visione a mio parere rischiosissima sia a livello individuale che collettivo e cioè l’idea che giustizia significhi vendetta. E quando si arriva a questo le responsabilità delle istituzioni sono fortissime, perché è una deriva che nasce dal sentimento della precarietà. Se la giustizia viene intesa come vendetta è una specie di distruzione dello stato di diritto».

 

Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 08:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci