Uno bianca, Savi esce dal carcere. Ira dei parenti delle vittime

Venerdì 24 Febbraio 2017
Uno bianca, Savi esce dal carcere. Ira dei parenti delle vittime
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PADOVA - Alberto Savi, l'ex poliziotto condannato all'ergastolo per gli omicidi della Uno bianca, ha chiesto e ottenuto per la prima volta dopo 23 anni di carcere un permesso premio: 12 ore di libertà, dalle 8 alle 20, di cui ha già beneficiato trovando ospitalità in una comunità protetta a Padova. Savi, 52 anni, è dal 1994 nel carcere  Due Palazzi di Padova dove risulta un "detenuto modello".

Contro il permesso premio si era schierata la Procura, presentando un ricorso al via libera dato a dicembre dal giudice di sorveglianza. Per ottenere le 12 ore di libertà, il più giovane dei fratelli Savi aveva presentato una serie di relazioni degli operatori del carcere che attestano un percorso di pentimento iniziato da tempo, accompagnato da un coinvolgimento lavorativo prima nel call center dell'istituto di pena per conto del Cup (Centro unico di prenotazione) dell'Azienda ospedaliera e dell'Uls 16 di Padova e successivamente in un'altra realtà. Sull'ok potrebbe aver pesato anche la lettera inviata nel settembre scorso all'arcivescovo di Bologna, mons. Matteo Zuppi, per chiedere perdono per quanto fatto.

ANCHE IL FRATELLO HA CHIESTO PERMESSI Anche Fabio Savi ha avanzato richieste di permessi premio, ma finora sono state rigettate. Fabio, 56 anni, è all'ergastolo come i due fratelli ex poliziotti, Roberto, che con lui era il capo del gruppo criminale, e Alberto, il minore. Fabio Savi, detto 'Il lungo' è detenuto nel carcere di Uta a Cagliari e proprio davanti ai giudici di Sorveglianza del capoluogo sardo pende un suo reclamo contro un primo no ad una richiesta di permesso. In precedenza era stata la Cassazione a dichiarare inammissibile un ricorso scritto personalmente da Savi quando era in carcere a Spoleto, con sentenza depositata ad agosto 2016. Inizialmente il permesso gli era stato accordato, ma la Procura aveva impugnato il provvedimento. Roberto Savi è invece detenuto a Bollate (Milano) e non risulta abbia avanzato richieste. Il quarto ergastolano della banda è Marino Occhipinti, anche lui in carcere a Padova: è in semilibertà dal 2012.

LA RABBIA DEI PARENTI DELLE VITTIME «I nostri morti non hanno permessi premio». Rosanna Zecchi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della banda della Uno bianca, reagisce così alla notizia del permesso di cui ha usufruito per la prima volta dopo 23 anni Alberto Savi, il più giovane dei tre fratelli condannati all'ergastolo per i delitti del gruppo criminale. «Da poco - prosegue Zecchi - siamo stati a due commemorazioni, di Beccari a Casalecchio e di Valenti a Zola Predosa, persone a cui la banda ha reciso la vita. Per noi questa gente non deve più avere voce in capitolo. Io non credo che si siano pentiti e mi auguro che dopo questo permesso la cosa finisca lì. E che i giudici non abbiano da pentirsi di averglielo dato», prosegue Zecchi. Nella concessione del permesso a Savi può aver contribuito la lettera all'arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi? «Non credo proprio che il vescovo - risponde Zecchi - abbia il potere di influenzare la giustizia». 

"I GIUDICI HANNO DEI FIGLI?" «Mi auguro che il giudice di sorveglianza» che ha concesso il permesso ad Alberto Savi «abbia figli e capisca cosa hanno fatto queste persone alle famiglie che avevano dei figli: glieli hanno tolti, il mio aveva 22 anni e mi rimane solo una tomba e non ho più lacrime da piangere». È arrabbiata e triste Anna Maria Stefanini, mamma di Otello, il carabiniere ucciso dai killer della Uno bianca insieme ai colleghi Mauro Mitilini e Andrea Moneta il 4 gennaio 1991 nella Strage del Pilastro a Bologna.  «La legge in Italia - dice  - è una vergogna, uno schifo. Che Paese è un Paese in cui persone che hanno ucciso 24 persone e ne hanno ferite 103 possono avere dei benefici? Devono gettare la chiave: nessun beneficio, nessun diritto. Non voglio vendetta, voglio giustizia. Hanno tolto la vita alle persone, la loro la devono passare in carcere fino alla fine. Che muoiano là dentro. Ogni volta che sentiamo queste cose è come se uccidessero nostro figlio di nuovo. Credo in Dio, sono cristiana ma non posso perdonare queste persone».
Ultimo aggiornamento: 17:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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