Strage del Bastione Impossibile 80 anni dopo: «Non potrò mai dimenticare l'inferno di grida e cadaveri»

Giovedì 8 Febbraio 2024 di Nicoletta Cozza
Luigi Pesavento, 87 anni, scampato alla strage del Bastione Impossibile

PADOVA - Aveva appena 7 anni e mentre usciva dall’inferno con la testa toccava il soffitto. Nello strazio di urla e invocazioni di aiuto, nel buio non aveva percepito che camminava sopra uno strato di cadaveri e di feriti. E solo dopo qualche tempo avrebbe capito che si era salvato per miracolo e che fra i corpi che giacevano a terra senza vita c’erano pure quelli dei tre fratelli, con i quali aveva giocato fino a poco prima.
Luigi Pesavento, oggi 87enne, ricorda perfettamente la tragica notte dell’8 febbraio 1944 all’interno del Bastione Impossibile, quando una bomba sganciata da un aereo inglese centrò una presa d’aria per deflagrare poi nelle viscere della cinta fortificata: fu una strage, la più grave per Padova nella Seconda guerra mondiale, in cui perirono oltre 200 persone che avevano cercato riparo là sotto.
Ne parla tuttora asciugandosi le lacrime e con la voce rotta dall’emozione, perchè quei drammatici momenti hanno segnato la sua esistenza e quella dei genitori.

Nella casa di Vigodarzere conserva foto, cartoline e documenti dell’epoca e ogni giorno li guarda, rivivendo lo strazio di allora. E spesso va ad Asiago sulla tomba dei fratelli, uccisi dall’ordigno quando avevano 18, 17 e 15 anni.


IL RACCONTO
La sua narrazione è viva e ricca di particolari. «I bombardamenti - racconta Luigi - inizialmente avvenivano di giorno e quindi io che frequentavo le elementari di via Raggio di Sole quando suonava l’allarme andavo con la maestra e i compagni dentro al Bastione. A dicembre iniziarono anche di notte come avvenne appunto l’8 febbraio del 1944. Stavo dormendo e la mamma mi ha svegliato dicendo a mio fratello Augusto di prendermi per mano e di portarmi al rifugio, perchè lei doveva convincere il secondogenito Giuseppe che non voleva saperne di lasciare la casa, quasi avesse avuto un presentimento. “No, io voglio restare qui”, lo sentivo ripetere. Io sono uscito in maglietta, senza pantaloncini e scalzo dall’abitazione di via Citolo da Perugia 64 e quando siamo arrivati i sotterranei erano già pieni di gente. Alla fine Giuseppe e Armido ci hanno raggiunti, e io mi sono seduto in braccio alla mamma in un angolo. A un tratto ho visto un bengala illuminare lo scenario e i miei fratelli andare con gli amici verso l’uscita, mentre il parroco recitava il Rosario vicino alla porta centrale. A un certo punto c’è stato un violentissimo scoppio e siamo caduti a terra per lo spostamento d’aria: non si vedeva, non si respirava, la gente urlava e mentre mia madre, dopo avermi messo un fazzoletto davanti alla bocca, provava a trascinarmi fuori, una mano dal basso mi ha afferrato le gambe e una voce disperata implorava aiuto. Sono uscito grazie alla luce di una torcia e sempre la mamma mi ha portato a casa di Romano Zangrossi, amico e coetaneo, perché lei doveva tornare a recuperare gli altri tre figli».
La ricerca è durata una settimana e il piccolo Luigi l’ha seguita nelle peregrinazioni tra ospedali e obitori, mentre il papà era prigioniero in Inghilterra. «Li ha trovati nella cella mortuaria dell’ospedale vecchio - prosegue singhiozzando -. Augusto presentava schegge negli occhi e in altre parti, Armido aveva i capelli in piedi e probabilmente è stato soffocato dalla massa di persone travolte dallo scoppio, mentre di Giuseppe era rimasto solo mezzo corpo, perché la bomba lo aveva preso in pieno e lo abbiamo riconosciuto dai vestiti. Non potrò mai scordare i funerali, con i camion che entravano in Duomo carichi di bare e da alcune gocciolava il sangue».


LA FAMIGLIA
Giuseppina Pesavento, martoriata dal dispiacere, ha poi proseguito le ricerche stavolta per scoprire dove era detenuto il marito. Quando ha appurato che era a Leeds con una lettera gli ha comunicato la tragedia che aveva colpito la famiglia. Rocco Pesavento è tornato casa il giorno dell’Epifania del 1945, dopo un viaggio rocambolesco fatto quasi sempre a piedi, a parte un tratto che ha percorso aggrappato a un camion stringendo una valigetta.
«Avevo deciso di non tornare al Bastione - conclude Luigi -, ma nel 2014 ho letto sul Gazzettino che ci sarebbero state le celebrazioni per il 70. anniversario: mi sono fatto forza e sono andato con mia moglie Luisa. Non è stato semplice e sono corso subito a vedere il posto dove quella notte ero seduto con la mamma. Era un angolino a destra che ho fotografato. Ricordavo tutto, persino le piante secolari all’esterno. Ho cercato con gli occhi i miei fratelli e poi ho pianto».
 

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