«Federalista sempre, ma Italia nel cuore. E domenica sono andato a votare»

Lunedì 30 Ottobre 2017 di Edoardo Pittalis
Mario Carraro
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«Domenica scorsa sono andato a votare, ero il primo al seggio, e all'ultimo momento ho deciso per il sì. Questo referendum non cambierà temo le cose, ma certamente rappresenta una grande indicazione. Io sono per un paese federalista, tutti insieme nella potenzialità del sistema. È giusto vivere in termini di grande autonomia in un contesto perfetto che è l'Italia. Quando dico il mio Paese, intendo l'Italia».

Mario Carraro, imprenditore padovano, 88 anni compiuti ieri 29 ottobre, data che è anche il suo anniversario di matrimonio. Ha passato ai figli Enrico e Tomaso l'azienda che fattura 594 milioni di euro; 9 stabilimenti tra Italia, Cina, Brasile e Argentina. La Carraro è leader mondiale nella produzione di sistemi di trasmissione per trattori e macchine industriali. Laurea ad honorem, l'unica assegnata dalla facoltà di Economia del Bo', Mario Carraro è stato presidente degli industriali veneti, ha animato anche stagioni della politica veneta: era tra i promotori del movimento del Nordest.

Che cosa era il Partito del Nordest?
«In quegli anni, subito dopo Mani Pulite, con Massimo Cacciari ci siamo trovati a condividere un sogno di crescita e modernizzazione. Venivo da una famiglia che non è mai stata fascista: nei mesi di Salò mio fratello soldato ha dovuto rifugiarsi in Svizzera e mio padre ha vissuto nascosto, poi è stato il primo sindaco di Campodarsego nominato dal Cln. Con Cacciari ci lasciammo per differenze di vedute su quello che poteva essere lo sviluppo del movimento, io non mi ero avvicinato con una caratterizzazione politica. A un giornalista che mi chiedeva se Cacciari guardasse troppo alto, risposi che per me era importante guardare lontano. Allora ero vicino al direttore del Gazzettino Giorgio Lago per la posizione presa su Mani Pulite e lo avevo pienamente sostenuto nello scontro con Gianni De Michelis, che pure considero uno dei migliori politici apparsi nel Veneto. A quel tempo abbiamo perduto una classe dirigente che è stata sostituita dai portaborse. Con Mani Pulite abbiamo buttato via molta acqua sporca, ma anche tanti bambini».
 
È mai stato vicino allora a entrare in politica?
«Un giorno ero a New York, mi chiama Prodi per propormi un ministero perché Di Pietro aveva dato le dimissioni. Voleva fare un rimpasto, spostare Bersani dall'Industria ai Lavori Pubblici e io avrei dovuto prendere il suo posto. Ho chiesto qualche ora per pensarci, non c'è stato bisogno, Prodi ha richiamato a stretto giro: D'Alema non voleva Bersani in quel ministero, temeva conflitti d'interesse con le Coop. Non accettai i Lavori pubblici a cui fu destinato Paolo Costa».

A che età è entrato negli affari?
«Un giorno mio padre andò dal ragionier Zanchin a chiedergli di prendermi in ufficio e quello rispose: Ma signor Giovanni, non vorrà mica che Mario entri in azienda?. Per fortuna si sbagliava. A 24 anni ero già dentro. Due anni dopo mi sono sposato, festeggio 62 anni di matrimonio. Ero a Venezia il giorno di Pasqua e ho incrociato una bella milanese in visita, Elsa. Abbiamo avuto quattro figli: Marina, che abbiamo perduto presto in tempi difficili e che ci ha lasciato Valentina, rendendoci così nonni molto giovani; Giovanni, il secondo, sempre vicino alla famiglia, vive sui Colli fuori dagli affari, con gli animali e la natura. Enrico e Tomaso sono entrati con me in fabbrica e ora sono loro al comando».

Come ha affrontato il nodo cruciale del passaggio generazionale?
«In ritardo, perché c'è stata la crisi e abbiamo rimandato di qualche anno. Mi ritengo fortunato, sono entrato all'età giusta per il ricambio, quando tra fratelli ci siamo divisi ancora in giovane età. Fatto tardi porta a crisi enormi, basta vedere cosa è accaduto in molte famiglie venete dell'imprenditoria. Ora vivo con distacco la situazione».

Come era l'azienda fondata dal padre?
«Era nata negli Anni Trenta, faceva seminatrici, il trattore è venuto anni dopo, per merito di Oscar che aveva molta fantasia: ha fatto quel trattore di nascosto da mio padre. Era il periodo in cui si stava sviluppando l'agricoltura. Noi l'abbiamo fatto al momento giusto, nel periodo del miracolo economico. Poi c'è stata la gravissima crisi del settore ed è venuto il momento di cambiare. Eravamo in ritardo per diventare grandi, occorrevano tecnologie importanti da applicare ad altre attività e così sono nate le trasmissioni, in particolare le quattro ruote motrici. È la mia fase».

Come era il bambino Mario Carraro?
«A scuola sono andato un anno dopo, con Francesco. Non articolavo bene le parole, la r l'ho presa a otto anni passando giornate a ripetere erre, erre. Penso ora che fosse dovuto al trauma vissuto a quattro anni per la morte della mamma che aveva 36 anni ed è morta al nono parto. Siamo rimasti sei fratelli, tre che ricordavano bene la mamma e tre, più piccoli, che non ricordavano niente. A scuola sono sempre stato un ragazzino brillante, soprattutto in matematica. Mio padre mi faceva fare le moltiplicazioni, tipo 724x381 e chiamava gli amici per sentire».

Quindi lei calcola a mente il prodotto di quella moltiplicazione?
«Come no! Fa 275.844. Non è difficile, si fa a rovescio, si parte dalle centinaia. Ma avevo la tendenza agli studi umanistici, mio padre diceva che avevo la parlantina dell'avvocato, però a me piacevano il cinema e la letteratura».

E' sempre stato un grande lettore?
«Facendo il militare a 21 anni mi sono letto intera La Ricerca di Proust, a 50 anni me la sono riletta in francese. Ho fatto il soldato a Palermo. In una giornata di caligo nel Distretto padovano dovevo scegliere la destinazione: Modena o Palermo?, chiese il maresciallo e incominciò a scrivere Mod, lo sorpresi dicendo che preferivo il sole alla nebbia e partii da soldato semplice addetto all'Ufficio benessere del soldato alle armi».

Per questo l'hanno chiamata l'intellettuale col trattore?
«Io non sono un tecnico, però sapevo fare sintesi di quello che i tecnici mi spiegavano. Ho sempre creduto nella cultura e nell'apertura sociale che mi è stata anche rimproverata dai colleghi e questo mi faceva sembrare un sospetto nell'ambiente degli industriali. Quando ero presidente veneto non vedevano di buon occhio che io avessi un buon rapporto con i giornali e fossi troppo teso al futuro. Un giorno mi telefona Ivano Beggio, che allora era il patron dell'Aprilia, e mi dice a nome dei colleghi che io davo eccessiva importanza a Internet! Non mi davo mai per vinto, ma quando lasciai la presidenza lo vissi come una liberazione».

Come vede l'uscita dalla crisi?
«Invecchiando si ama di più il proprio paese, però più si ama e più oggi si è tristi. Ho un po' di timori. Finalmente stiamo migliorando, ma restiamo ultimi come ritmo di crescita. Occorre un piano organico e razionale non solo per superare i prossimi tre anni, questo lo faremo bene, ma per prepararci alle trasformazioni dei prossimi decenni. Siamo un paese vecchio, come la Germania, ma la Merkel si è preoccupata di trovare nuova forza lavoro, anche a rischio di impopolarità; noi invece siamo dominati dalla paura. Dobbiamo ritrovare il tempo del coraggio».
Ultimo aggiornamento: 09:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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