PADOVA - Fra un processo e l'altro, era stato condannato in via definitiva a 6 anni e 5 mesi di reclusione, che ha scontato prima in carcere e poi a casa. A causa dei suoi guai giudiziari, il luogotenente dei carabinieri Franco Cappadona era stato sospeso dall'impiego, finché era andato in pensione. Tuttavia l'ex sottufficiale, per un quarto di secolo a capo della squadra di polizia giudiziaria in Procura a Padova, non ci sta, tanto da aver impugnato il provvedimento e presentato il conto: il 66enne chiede che gli vengano liquidate le licenze di cui non ha fruito, ma anche quelle «per cure balneo termali per patologie come dipendenti da fatti di servizio», ma almeno per ora non l'ha spuntata.
Le sentenze
Le sentenze penali passate in giudicato riguardano da un lato la tentata concussione per la sede dell'Arpav (4 anni), dall'altro la rivelazione del segreto d'ufficio e il favoreggiamento per le "soffiate" ad alcuni indagati, tra cui l'ex governatore e ministro Giancarlo Galan (2 anni e 5 mesi). Per quest'ultima vicenda, la Corte dei Conti del Veneto aveva anche disposto in primo grado un risarcimento erariale di 80.000 euro, in favore del ministero della Difesa per il danno arrecato all'immagine dell'Arma.
Trascorsi i termini
Sia il Tar del Veneto che il Consiglio di Stato, però, finora hanno respinto le sue istanze, dichiarando il giudizio «estinto per perenzione». Cosa significa? Sostanzialmente a Cappadona viene contestata un'inerzia processuale: il ricorso era stato depositato nel 2017; trascorsi 5 anni, il Tribunale gli aveva notificato l'avviso in base a cui l'ex sottufficiale avrebbe potuto presentare una nuova istanza di fissazione dell'udienza; ciò era avvenuto oltre il limite di 120 giorni prescritto dalla legge, fissato nel suo caso per il 19 aprile 2023. Come riassumono i magistrati amministrativi, il 66enne ha spiegato che il ritardo è dipeso «da un'oggettiva impossibilità di rispetto del termine a causa dello stato di detenzione carceraria in cui versava nel periodo dal 12 marzo 2021 al 14 aprile 2023, allorché veniva disposta nei suoi confronti la detenzione domiciliare», per cui «lo sforzo diligente» preteso «era impossibile o comunque assai difficile da rispettare».
Le misure
Come già i giudici di primo grado, però, anche quelli dell'appello hanno fatto presente che né Cappadona né il suo avvocato hanno mai formalizzato «all'autorità preposta, sia essa il direttore dell'istituto o il magistrato di sorveglianza, una richiesta di colloquio in carcere o di allontanamento dal domicilio motivata dall'esigenza di sottoscrizione personale dell'istanza di fissazione di udienza al fine di evitare la perenzione del giudizio». L'ordinamento penitenziario prevede infatti una serie di misure finalizzate a «conformare il regime di detenzione con il rispetto dei diritti fondamentali del detenuto», come ad esempio «i colloqui e la corrispondenza» in prigione «al fine di compiere atti giuridici», nonché «il diritto ad assentarsi per il tempo necessario a provvedere alle indispensabili esigenze di vita» durante la detenzione domiciliare. Ma questi strumenti non sono stati utilizzati, «nonostante il congruo lasso temporale previsto».