Vittorio, l'ultimo alpino sopravvissuto all'internamento nel Lager durante la Seconda Guerra Mondiale

Domenica 27 Gennaio 2019 di Germana Cabrelle
Vittorio Ometto
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VILLA DEL CONTE (PADOVA) - Si sistema sulla testa il cappello da alpino, poi Vittorio Ometto, 94 anni comincia il racconto. Una testimonianza lucida e pacata la sua, peraltro raccolta integralmente dalla vicina di casa Maria Serafin, infermiera in pensione appassionata di scrittura, che un anno e mezzo fa ha annotato i ricordi che l'ex soldato le dettava, intrisi delle lacrime che non riusciva a trattenere e degli incubi notturni che ancora lo perseguitano. Ne è uscita una plaquette di 60 pagine, un diario semplice e discorsivo «per far arrivare efficacemente il messaggio a tutti gli studenti» precisa la curatrice. «Mi chiamo Vittorio Ometto e sono nato il 24 marzo 1924 ad Abbazia Pisani, piccola frazione di Villa del Conte, nel Padovano. Dicono che io sia l'ultimo alpino rimasto in vita fra quelli internati nei campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale». L'incipit da  solo dice tutto. Poi il testo si addentra nell'orrore, che ebbe inizio nel lager di Fallingbostel, nella bassa Sassonia. Qui Vittorio ci arrivò nel settembre 1943 stipato in un vagone merci insieme ad altri 59 commilitoni fatti salire a calci - di fucile e di pedate costretti a respirare a turno da un minuscolo finestrino con grata e a fare i bisogni in un secchio. Per giaciglio solo strami di paglia. Gli fecero credere che la motrice del treno era rivolta verso l'Italia e loro sarebbero tornati a casa. In realtà la tradotta era diretta in Germania e il viaggio durò 7 giorni. Quando arrivarono fu servito loro un rancio insufficiente quanto umiliante: una scodella di brodo con sopra una spiga di grano, non commestibile.
LA DEPORTAZIONE«L'8 settembre 1943 ha colto i comandi militari alla sprovvista spiega Cirillo Menzato, consigliere dell'Associazione Nazionale ex Internati di Padova e i tedeschi disarmarono l'esercito italiano portando i soldati su carri bestiame nei lager in Germania e in Polonia. I soldati italiani erano internati, non considerati prigionieri di guerra, e pertanto privati della tutela e dell'assistenza umanitaria della Croce Rossa Internazionale prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Vennero avviati a lavorare come schiavi nelle industrie belliche tedesche».
Vittorio Ometto era addetto agli altiforni delle bombe e dei missili aerei. «La sveglia era alle 2 di notte. Le guardie tedesche facevano l'appello chiamando il numero di matricola e alle 4 si partiva. La fabbrica era a 4 ore di cammino e quando arrivavamo ci aspettavano 8 ore di lavoro. Quando uscivamo andavamo a prendere il rancio che consisteva in un tozzo di pane con condimento; alle 22.30 si rientrava in baracca, si aspettava l'appello della mezzanotte e poi alle 2 di nuovo la sveglia».
L'ANNIENTAMENTONella logica nazista erano questi i primi step verso l'annientamento psicofisico. «Il calore delle presse aveva ridotto i vestiti a cenci, il poco cibo resi debilitati e anemici. Calpestando le lamiere ardenti bruciai la suola di una scarpa e per 15 giorni camminai senza. Un giorno seppi che in una camerata era morto un commilitone. Andai a dargli l'ultimo saluto ma anche a prendermi le sue scarpe». Continua Vittorio: «Ogni due settimane facevamo i turni di notte per raccogliere i morti, lavarli e portarli in obitorio dove alcuni medici tedeschi facevano esperimenti sui cadaveri. Ci sono stati momenti che abbiamo invidiato i compagni deceduti: anche noi avremmo voluto chiudere gli occhi per sempre, per non vedere più tanto orrore, non sentire più alcun dolore». Vittorio soffre tuttora di un dolore alla schiena a causa di una scudisciata che gli è stata inferta da una guardia nazista con un nerbo di ferro. «In fabbrica mi ero addormentato per stanchezza, sfinito sopra i cumuli di proiettili allineati. Sono stato svegliato da quella bastonata di punizione di cui tuttora porto i segni. Nel corpo come nell'anima».
I suoi vent'anni, Vittorio li ha computi dentro il campo di concentramento di Fallingbostel: era il 24 marzo 1944. «Come regalo un'uscita all'esterno nell'aria di primavera, con i campi che rinverdivano all'intorno. Ma proprio a fianco al nostro c'era un campo di ebrei, con il filo spinato come il nostro, solo con l'unica differenza che era elettrizzato. Avevo voglia di volare con l'immaginazione oltre tutti i recinti, alla ricerca di una libertà lontanissima». A casa Vittorio Ometto tornò il 4 settembre 1945. «Il mio cavallo e il mio cane mi riconobbero subito e loro sì saltarono lo steccato. Per farmi festa».
 
Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 11:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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