Padova. Alberto Bolzonella, l'artista che disegna con una sola mano: «Quando padre Leopoldo bussò alla porta di casa»

Artista eclettico di 89 anni, Bolzonella ha creato diverse opere per mostre internazionali e musei. La sua vita è stata segnata da tanti incontri e avvenimenti significativi

Giovedì 1 Giugno 2023 di Maria Pia Codato
Alberto Bolzonella

PADOVAAlberto Bolzonella è un artista a tutto tondo, che ha vissuto sulla pelle il dramma della guerra e che ha persino incontrato un futuro santo. Si è formato tra istituti d’arte e Accademia. Ha insegnato per quarant’anni ed è stato membro e promotore di molte associazioni e gruppi artistici e storici. Alcune sue opere si trovano in musei, luoghi sacri e collezioni private. Nel 1997 ha dipinto nella chiesa di Santa Caterina da Siena alle Padovanelle un Crocifisso alto tre metri e la Via Crucis. Nel 2000 è stato invitato dalla Pontificia Commissione d’Arte sacra a esporre le sue opere a Roma in occasione del Giubileo.

Maestro, è stato affascinato dalla Divina Commedia...

«Ho realizzato, con pennino e inchiostro di china, l’Inferno dantesco. I disegni, proposti anche in un volume, sono diventati oggetto di una mostra in Svezia, divenuta itinerante nei Paesi nordici. Poi ho affrontato le scene del Purgatorio e del Paradiso. Nel 2018 era stata programmata una mostra dei miei disegni sulla Divina Commedia a Londra ma, a causa di una malattia, sono stato costretto a rinunciarvi».

Ha eseguito innumerevoli lavori commissionati da istituzioni pubbliche e private, affreschi e murales nel Padovano e non solo...

«Sì, a Padova, Voltabarozzo, Piove di Sacco, Pieve di Soligo, negli istituti di riposo e al liceo Duca d’Aosta. Un mio grande affresco è nella casa del professor Enrico Schergna a Strembo (Madonna di Campiglio). Ho disegnato il Palio di Montagnana e quello della “Tria” di Campodarsego, bozzetti per mostre e illustrazioni per opere di autori padovani. A Conegliano ho realizzato il “cartone” per un affresco dedicato al principe di Collalto».

Il suo impegno si è riversato su tutto il fronte della cultura...

«Per un decennio ho fatto parte del direttivo del Vecia Padova organizzando “Muse in Ghetto”. Ho contribuito alla nascita del gruppo artistico “Convivium” e sono membro del direttivo Ucai (Unione cattolica artisti italiani). Nell’aprile scorso ho consegnato al cardinale Pietro Parolin un dipinto per il pontefice, che lo ritrae mentre apre la Porta Santa in occasione dl Giubileo del 2015».

Ora, a 89 anni, continua a sperimentare nuovi linguaggi.

Da piccolo come ha incontrato padre Leopoldo?

«Avevo 8 anni. Un pomeriggio del 1942 ho sentito una scampanellata alla porta di casa, in via Acquapendente. Sono corso ad aprire e mi sono trovato davanti un frate attempato, dalla barba lunga, con una veste stinta, piccolo di statura, che, vedendomi sorpreso, mi ha sorriso: “Sono padre Leopoldo e sono venuto per il tuo papà che sta male”. Ho chiamato la mamma, che poi mi ha spiegato chi era quel frate e da chi era stato mandato: alcune parenti che frequentavano la chiesa dei Cappuccini, sapendo che mio padre era da tempo a letto per una broncopolmonite,erano ricorse a lui.”Il fraticello” aveva confessato e dato la Comunione a mio padre. Due giorni dopo si è alzato dal letto, guarito. Di questo episodio non ho mai parlato con nessuno. Lo faccio ora, per ricordare un santo».

Cosa accadde quando frequentava le elementari Cavalletto al Bassanello?

«Erano tempi di guerra. Di notte ci attanagliava la paura di “Pippo”, l’aereo che sorvolava la città e lanciava bombe. Una mattina, entrando in classe, sul banco attiguo al mio ho trovato un mazzo di fiori, che mi ha fatto pensare al compleanno del mio compagno Giancarlo, ma il maestro ci disse: “Giancarlo non c’è più, Pippo questa notte ha colpito la sua casa e lui è stato ferito mortalmente”. Ho provato un grande dolore».

Ma la sua vita è stata segnata da un altro episodio.

«Sì, accadde il 4 aprile 1945, nei giorni della Liberazione. Mentre con altri ragazzi aspettavo l’apertura del patronato di Santa Giustina, in Prato della Valle, ho visto per terra un oggetto a forma di penna, ho cercato di aprirlo ed è scoppiato. Ricordo una fiammata azzurra e uno strano formicolio alla mano destra. I miei compagni urlavano, io ero frastornato e non capivo quello che era successo: guardavo la mano maciullata, ma non sentivo dolore. Un giovanotto che passava di là si è tolto la cravatta e, facendomi sedere per terra, me l’ha stretta al braccio per fermare il sangue. Poi l’ambulanza mi ha portato in ospedale. Purtroppo la mano non hanno potuto salvarla».

 Così ha conosciuto don Gnocchi?

«Mio padre, venuto a sapere che in Italia erano stati creati degli “Istituti per i mutilatini”, riuscì a farmi inserire in uno di questi, a Firenze: l’istituto e collegio del Galluzzo, che accoglieva i ragazzi martoriati dalla guerra. Qui ci facevano visita artisti, attori e cantanti. Veniva anche don Gnocchi. Spesso mi mettevo nell’androne della villa, dove eravamo ospitati, a dipingere e lui, vedendomi, mi diceva: “Ecco il nostro imbianchino!”. Di lui ricordo l’aspetto ascetico, il volto molto pallido, che contrastava con la lunga veste nera, e i suoi indimenticabili occhi di un azzurro cobalto».

Questi episodi hanno influenzato anche il suo modo di esprimersi?

«Certamente. Mi hanno indotto a porre al centro dei miei disegni e dipinti la figura umana, in tutte le sue sfaccettature, e a riflettere sulla vita e sulla morte. Per questo ho ripercorso il viaggio dantesco, con profondo coinvolgimento emotivo, uscendo anch’io, alla fine, “a riveder le stelle”».

Ultimo aggiornamento: 2 Giugno, 11:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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