Il giudice del Vajont raccontato dalla figlia: «Processo a L'Aquila, fu felice: garantiva più obiettività di Venezia»

Mercoledì 4 Ottobre 2023 di Daniela De Donà
Il giudice del Vajont, Fabbri raccontato dalla figlia

BELLUNO - Tra ricordi di vita familiare e impegno civico in un ritratto, portato dalla figlia Antonella, che mette in primo piano, anche con qualche curiosità, l’uomo accanto al magistrato. Mario Fabbri a Belluno arrivò, da giudice istruttore, nell’aprile 1963. Aveva 31 anni. Con lui la moglie Maria Luisa, maceratese di nascita come lui, e due bambini: Antonio, di 3 anni, e Antonella, di uno. E nel 1966 nacque il terzogenito, Andrea. Belluno, seppur con il legame d’amore verso la terra marchigiana, divenne così la sua città: qui Mario Fabbri, morì, a 86 anni, nel 2019. 
 

Come mai, lasciando Rovigo da pretore, scelse come sede Belluno? 
«Diciamo pure che la sua vita professionale partì in salita. Chiese di avvicinarsi al papà malato, andando in una sede nelle Marche. Invece, siccome era un outsider, venne assegnato a Nuoro. Si arrabbiò moltissimo. E allora lo destinarono a Belluno. Diciamo pure che non lesse questo trasferimento come un favore. Sta di fatto che andammo ad abitare in un appartamento in via Tiziano Vecellio, praticamente dove finiva la città».

Suo papà è considerato il giudice paladino del Vajont. Come ebbe notizia della tragedia? 
«Tutta la famiglia era a Macerata per il matrimonio di zio Delio, fratello più piccolo di papà.

Lo aveva accompagnato in stazione da dove partiva per il viaggio di nozze: fu allora che gli si avvicinò o un poliziotto o un carabiniere, portandogli la terribile notizia. Voleva partire subito. Ma da Belluno lo fermarono: “Giudice non si muova, le strade sono tutte bloccate”, gli dissero. Di fatto alle 4 di mattina salì in auto e venne in su. Per tornare a riprenderci dopo dieci giorni».


Era il febbraio 1964 quando il procuratore della Repubblica, Arcangelo Mandarino, gli affidò l’istruttoria formale del Vajont che si concluse con la sentenza datata 28 febbraio 1968. A casa, in quegli anni, cosa raccontava? 
«Ero bambina e non ricordo di riferimenti espliciti. Ma ho delle immagini in mente. Quando mamma aveva bisogno di un’ora di tempo ci portava in ufficio da papà. Noi bambini dovevamo stare seduti fermi e in silenzio, perché lavorava. Me lo vedo ancora: immerso tra pile di carte che andava analizzando, verificando e componendo, aiutato dal cancelliere capo, Cavallini, e dagli altri addetti alla segreteria. Era avvolto da una nuvola di fumo. Sul tavolo, vicino alla abat-jour dal vetro verde e dallo stelo di ottone, aveva un portacenere pieno di mozziconi».

Un papà gran fumatore. Affettuoso? 
«Certo. Intanto al mattino era lui a portarci a scuola a Quartier Cadore. E come tanti papà quando arrivava per pranzo voleva la check-list: come è andata a scuola? Cosa avete fatto con la maestra? E noi come tutti i bambini rispondevamo, rispettivamente, “Bene”, “Niente”. Lui sorrideva e si accontentava delle nostre non risposte».

Dopo la sentenza istruttoria il processo venne spostato a L’Aquila per legittima suspicione. Uno spostamento chilometrico che venne preso male da superstiti e sopravvissuti: la reazione di Mario Fabbri? 
«In città se ne discusse molto all’epoca. Si pensava che aver portato il processo a L’Aquila avesse privato Belluno della sede naturale dove poter ottenere giustizia per le vittime. Papà, invece, accettò la decisione convinto che venisse così garantito un giudizio basato su rigore e obiettività partendo dal fatto che la sua sentenza istruttoria era pietra miliare. Lasciando a Belluno il processo, con l’eventuale successivo vaglio della Corte d’appello di Venezia, si rischiava un infausto esito processuale, visto che nella città lagunare la Sade aveva ancora forti entrature».

Da giorni, in attesa dell’arrivo del presidente Mattarella, dovunque si cita la tragedia del Vajont.... 
«Con qualche punta di retorica, proprio quello che a mio padre non sarebbe piaciuto visto che, da uomo positivo qual era, riteneva che da ogni situazione bisogna trarre un’opportunità. Fece la proposta allora, da antesignano: creare a Longarone un Centro di Protezione civile nazionale. Idea che cadde nel vuoto».

Forse perché lanciata da un uomo di sinistra, vicino al Partito Comunista? 
«Il nonno fu internato in Germania. Io e mio fratello maggiore ricordiamo, nel nome, il fratello di papà, Antonio, ucciso dai nazisti. C’è alle spalle, quindi, un vissuto familiare che ha condizionato anche lo stile di vita. Mario Fabbri, evitava il protagonismo. Non andava ad incontri accademici, preferiva parlare, con ossequio alla giustizia, della sua esperienza di inquirente ai Comitati studenteschi universitari».

Sono numerose le passioni del giudice Fabbri: il mare innanzitutto, con la barca autocostruita che portava il nome della moglie, e lo sci di fondo. Ma anche la caccia.... 
«Ma non agli ungulati come è tipico nel Bellunese. Sosteneva che sparare da distante, quindi senza guardarlo, ad un animale fermo ed indifeso, era un gesto da vigliacchi. Preferiva la caccia di precisione e in velocità, su animali che si muovono: beccaccini, fagiani, lepri. Andava, in botte, nella Valli di Comacchio, magari con l’avvocato Livio Dalla Bernardina e con il questore Luigi Letico. E quando tornava a casa con il bagagliaio carico di cacciagione tutta la famiglia era coinvolta nello spennamento. Nella giberna, poi, c’era sempre una sorpresa, magari dei pom de la rosetta. Va detto, peraltro, che smise di andare a caccia quando aprirono le riserve: secondo lui nulla era più lasciato alla ricerca, all’attenzione, alla fatalità». 

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