Disastro di Alverà, indagini chiuse: 4 sotto accusa, c'è l'ex sindaco

Domenica 2 Settembre 2018
Il ponte di Alverà dove è morta Carla Catturani
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BELLUNO - A poco più di un anno dal disastro di Alverà, la procura di Belluno chiude le indagini e chiede il rinvio a giudizio dei quattro presunti responsabili della morte di Carla Catturani, la 61enne di Cortina travolta e uccisa dalla colata di sassi e fango che la notte del 5 agosto si staccò dal Cristallo seminando distruzione e morte nell’abitato di Alverà.
Stava transitando in auto sulla regionale 48 delle Dolomiti quando venne trascinata via dalla furia delle acque, proprio all’altezza del ponticello sul Ru de ra Grae, immissario del Bigontina. Non vennero installati sistemi di allarme contro i possibili, e già noti, smottamenti dell’area classificata ad alto rischio (grado 4) dal Piano di assetto idrogeologico: questa la sintesi dell’accusa che oggi pesa sugli allora tre esponenti del Comune di Cortina: Andrea Franceschi, 40 anni, sindaco, Stefano Verocai, 57 anni, assessore ai lavori pubblici, Stefano Zardini Lacedelli, 63, responsabile dell’Ufficio lavori pubblici. Con loro è indagato anche Sandro D’Agostini, 54 anni, all’epoca dirigente di Veneto Strade. A tutti è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini.

Al dirigente di Veneto Strade, ente responabile dell’arteria su cui si consumò la tragedia, la Procura contesta di aver «omesso di predisporre idonei presidi di allarme componibili da centraline, ecometri, stazioni semaforiche, sirene luci a faro, fotocellule o un più semplicemente un presidio umano in grado di cogliere le prime avvisaglie dello smottamento e fermare il traffico.
Perché, come scrive la Procura, si sapeva della fragilità ciclopica di quel versante dal quale più e più volte c’erano stati distacchi. E ancor oggi sullo stesso punto incombono 40mila metri cubi di massi e detriti. Diversa, anche se identica nella sostanza, la posizione di Franceschi, Verocai e Lacedelli. La Procura sostiene che i tre fossero a conoscenza dei rischi di quel tratto inserito nel Piano di emergenza proprio a causa dei ripetuti eventi franosi succedutisi negli anni. Avrebbero tuttavia omesso di «deliberare, progettare, predisporre e far installare adeguata illuminazione stradale, equipaggiando il tratto di strada con cartellonistica, con indicazioni di pericolo, segnalatori ottici e lampeggianti, tali da impedire alle persone di transitare in quel punto». A loro viene anche contestato di non aver sensibilizzato la popolazione impartendo misure di sicurezza in caso di forti piogge, come, ad esempio, di evitare di attraversare tombotti e ponti. Altro carta nella manica della pubblica accusa, il fatto che quel giorno la Protezione civile avesse preannunciato l’allarme giallo. Insomma, i responsabili avrebbero avuto in mano tutti gli elementi per evitare la morte della donna. Ad oggi, tuttavia, nonostante quei 40mila metri cubi in balia di un acquazzone più forte, la situazione “allarmi” non è cambiata. Nessuna delle possibili misure indicate dal magistrato è stata messa in atto, anche se i lavori di pulizia e di messa in sicurezza dell’abitato si sono susseguiti senza sosta in questi mesi. «Il grosso dei lavori, tuttavia, partirà nel 2019», ha spiegato l’assessore regionale Gianpaolo Bottacin che ha sempre seguito da vicino le frane cadorine e non. Sul tavolo c’è un intervento che prevede la creazione di cinque briglie e due vasche lungo lo spazio di tre chilometri tra l’abitato di Alverà e Rio Genere. Inoltre sarà messo in sicurezza l’argine su circa 700 metri. Servirà un investimento di circa 3 milioni di euro, ennesima voragine nella fragilità delle Dolomiti.
Ultimo aggiornamento: 11:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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