​Quelle verità vergognose sulla stagione delle stragi

Martedì 23 Maggio 2017
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Egregio direttore,
ancora, dopo 25 anni, se ne sta rintanata ai bordi di un'autostrada (A 29) la Verità. E piange. Ed è ancora sola vicino a 13 bidoni: lo Stato, finora, non l'ha consolata. Non chiede perché?: lo sa. Troppo pochi hanno raccolto invece il suo per chi? e vivono ancora, pericolosamente, ai margini di quella (e di altre) autostrade. Sono eroi, spesso soli anche loro!

Li vedono molti potenti che, alle 17,58 di ogni giorno, sfrecciano con le macchine blu e, in quel tratto, suggeriscono agli autisti di accelerare.

Quattro vedove ed una quinta persona, prese in braccio da molti giovani freschi e buoni e da qualche prete-profeta, portano ogni anno cinque fiori alla Verità. Dopo venticinque anni non smettono di bussare, assieme a molte altre figure pulite, al portone di un Palazzo ed all'uscio di un Covo.
Requiem!


Renato Omacini
Venezia


Caro lettore,
come diceva Oscar Wilde «la verità è raramente pura e non è mai semplice». Figuriamoci quando si parla di vicende di mafia. Sulla strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone, della moglie Francesca e degli uomini della scorta tante cose, a 25 anni di distanza, sono ancora da chiarire, tante verità si sono inseguite, sovrapposte e reciprocamente negate nel corso di questi anni. Tante piste si sono aperte e molte sono finite nel nulla. Ma anche molto si sa. Sappiamo, per esempio, che a volere quella morte fu il capo mafioso Totò Riina e che a premere il bottone del telecomando che fece esplodere i 13 bidoni di plastico fu Giovanni Brusca. Ma sappiamo anche che, mentre era in vita, Giovanni Falcone veniva da tanti vissuto come un corpo estraneo alla magistratura.

Un soggetto a parte, rischioso e inquietante per il suo modo di essere e di indagare i misteri di Cosa Nostra. Sappiamo che fu osteggiato ed ostacolato non solo dai mafiosi, ma da numerosi colleghi e da poteri piccoli e grandi. Qualcuno giunse persino a insinuare il sospetto che si fosse inventato un attentato contro di lui: quello, per fortuna fallito, dell'Addaura. Era riconosciuto a livello internazionale come uno dei nostri magistrati più abili e acuti, ma quando si trattava di assegnargli nuovi incarichi, qualcuno, chissaperchè, gli veniva sempre preferito. E quando accettò un incarico governativo, quello di direttore degli Affari penali, non mancò qualcuno, dal fronte dei professionisti parolai dell'anti-mafia, che lo apostrofò come «traditore».

Sì, è vero: la verità giudiziaria sulla strage di Capaci è ancora da comporre in tanti suoi elementi. La ricostruzione della rete di interessi e di alleanze torbide che si cela dietro quell'attentato è tuttora monca in alcuni suoi tasselli fondamentali. E purtroppo tale sembra destinate a rimanere. Ma di quella stagione sappiamo anche abbastanza. Almeno quanto basta per provare un po' di vergogna per il Paese in cui viviamo.
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