Fine vita ed eutanasia non sono la stessa cosa. Va ostacolata la cultura della libertà di suicidio

Sabato 27 Ottobre 2018
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Egregio Direttore,
mi riferisco alla lettera del signor Silvano Lorenzon del 26 ottobre 2018 ed alla Sua risposta che, rispettosamente, mi trova in disaccordo e che, sempre rispettosamente, ritengo piuttosto qualunquistica. Lei chiede «se lei vede un uomo che si sta buttando da un ponte cerca di dissuaderlo o lo aiuta a farla finita?». Esempio non molto calzante e che anzi definirei del tutto inappropriato rispetto alle realtà cui il Lorenzon si riferisce. Chi non vorrebbe salvare una vita umana? Tutti vorremmo farlo. Però Le propongo un'altra domanda: se lei avesse una sorella, come nel caso da me vissuto, o un altro familiare o parente, egualmente vissuto, irreversibilmente in coma, che continua a soffrire senza possibilità di guarire secondo quanto sentenziato dai medici, che cosa Le suggerisce il suo istinto e la sua dimensione di uomo? Di continuare a tempo indefinito a farla soffrire? Opinione legittima! Invece il mio istinto augura a questi ammalati di veder finire le proprie sofferenze, come il buon Dio effettivamente ha, alla fine, pietosamente disposto. L'eutanasia e il suicidio assistito saranno forse anche una sconfitta, come lei sostiene, ma in certe situazioni, la fine delle sofferenze costituisce, non una vittoria, ma sicuramente un definitivo sollievo: non per chi sta intorno, ma, sottolineo, per l' ammalato. E le assicuro: a fronte di un tale caso forse non mi sentirei né più libero, né migliore, ma sicuramente altrettanto libero e certamente non peggiore.


G.B.Treviso

Caro lettore, 
non oso rispondere alla sua domanda perchè sono consapevole che certe, drammatiche situazioni si devono vivere per poterle comprendere fino in fondo ed affrontare. Ma il suo, mi perdoni, è un quesito malposto. Io rispondevo ad una lettera che teorizzava la libertà di suicidio, lei parla di fine vita. Non sono affatto la stessa cosa: c'è un abisso tra queste due dimensioni. Un conto è discutere su quale sia il modo migliore per stare accanto, con umanità e consapevolezza, ad una persona che ha concluso il suo ciclo di vita (mi sembra questo il caso di sua sorella), altro è sostenere la possibilità o la libertà di produrre la morte di un individuo. Anche Papa Francesco ha messo in guardia dalla «tentazione di insistere con trattamenti che non giovano al malato» e ha dichiarato che «è lecito sospendere cure sproporzionate», sottolineando che evitare l'accanimento terapeutico è cosa diversa dall'eutanasia. Io ho risposto a un lettera che sosteneva il diritto di «poter scegliere come vivere, ma pure come morire». Ed è questa la deriva che mi sento di respingere. Da uomo, prima che da credente. 
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