Gentiloni, oggi la fiducia al Senato: ieri primo sì alla Camera: «Resto finché ho la fiducia»

Martedì 13 Dicembre 2016
Gentiloni, oggi la fiducia al Senato: ieri primo sì alla Camera: «Resto finché ho la fiducia»
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ROMA «Ho sentito dire che non avremmo riconosciuto la sconfitta referendaria. Una canzone diceva, se stasera sono qui.... Ecco, se stasera sono qui è proprio perché quella sconfitta l'abbiamo riconosciuta. Renzi si è dimesso». Dopo aver fatto assopire a metà mattina i pochi deputati presenti, al momento della replica Paolo Gentiloni cita Luigi Tenco e tira fuori le unghie, rispondendo a chi l'ha accusato di essere stato «grigio» e «incolore» e ai Cinquestelle e i leghisti che l'hanno snobbato disertando l'Aula. Così, prima del voto di fiducia della Camera (368 sì, 10 voti in meno di Renzi causa l'esclusione dei centristi ora legati a Verdini) il nuovo premier ha un sussulto: «I super paladini della Carta e della centralità del Parlamento nel momento più importante della vita parlamentare non ci sono. Vi sembra logico?». Ancora: «Bisogna farla finita con l'escalation della violenza verbale. Il Parlamento non è un social network. Va ridata serenità qui dentro per ridare serenità al Paese».

Ecco, «un nuovo clima», «sostituire lo scontro con il confronto». E' questo il core business del discorso di Gentiloni. Diciassette minuti appena e soli due applausi in un'Aula semivuota. Segnali di quanto aperte e dolenti siano le ferite della batosta del 4 dicembre. Ma il successore di Matteo Renzi prova a voltare pagina. Promette il suo «impegno personale» affinché via sia «discontinuità almeno nel confronto». «Ne avremmo davvero bisogno», sospira. Come «avremmo bisogno di convergenze larghe sui singoli provvedimenti»: «La politica e il Parlamento sono luogo di confronto dialettico, non dell'odio e della post verità. Chi rappresenta i cittadini deve diffondere sicurezza, non paura». Applauso.

«GLI STESSI? NON È UN LIMITE»
Gentiloni, sceglie insomma uno stile diverso da Matteo Renzi. Ma non disconosce il suo amico e predecessore. Anzi. «Le dimissioni da premier non erano obbligate, ma averle presentate è stato un atto di coerenza che tutti gli italiani dovrebbero salutare con rispetto». E gonfia impercettibilmente il petto quando afferma: «La maggioranza che sostiene questo governo è di fatto la stessa che ha sostenuto Renzi. Per qualcuno si tratta di un limite. Invece io rivendico il grande lavoro fatto e ne rivendico i risultati. Ne sono orgoglioso».
Già. Ma è già stufo, il premier, di parlare del passato: «Questa è l'ultima volta che vorrei soffermarmi sul modo in cui è nato il mio governo. Da ora voglio occuparmi sulle cose da fare». Non senza aver prima ringraziato Sergio Mattarella «per la sua ferma guida». E aver rivendicato «che questa maggioranza si assume un rischio politico assumendosi la responsabilità di andare avanti per portare il Paese al voto». Come dire: gli altri fanno le anime candide, sbraitano, e noi facciamo il lavoro sporco per permettere di riscrivere «regole elettorali serie e precise». «Il governo non sarà però attore protagonista» sul fronte della legge elettorale. «Pur non restando alla finestra», sarà semplice «facilitatore, accompagnando il confronto». In poche parole: «Tocca al Parlamento trovare intese efficaci».

Guai però a parlare di governo a tempo, anche se le elezioni a giugno sono l'epilogo più probabile. «Se il governo otterrà la fiducia, sarà un governo a pieno titolo», teorizza Gentiloni, «un governo di responsabilità. Lascio ad altri il dibattito sulla sua durata. Per quanto mi riguarda vale la Costituzione: il governo dura fin quando ha la fiducia del Parlamento».

Tracciato l'identikit dell'esecutivo, Gentiloni elenca «le priorità». La prima è la ricostruzione e l'assistenza agli sfollati del terremoto. La seconda è mettere in sicurezza il sistema del credito: «Il governo è pronto a intervenire, se necessario, per garantire i risparmi dei cittadini e la stabilità delle banche». La terza è «il lavoro, soprattutto nel Mezzogiorno». Questo anche per irrobustire «la ripresa economica ancora lenta» e per affrontare «il disagio della classe media, in particolare il lavoro dipendente e le partite Iva». Quelli corsi in massa a votare No.
Teorizzato che «l'Italia ha un'economia forte, lo dimostrano le profezie sbagliate di apocalisse in base all'esito del referendum» (brusii in aula), Gentiloni affronta i dossier che conosce meglio.

Quelli di politica estera. Qui dice di essere «pronto a collaborare con gli Stati Uniti» di Trump, «forti dei nostri principi». Qui, in vista del Consiglio europeo di domani, bacchetta Bruxelles: «E' inaccettabile che passi il principio di un'Europa severa sull'austerity e tollerante verso i Paesi che non accettano di condividere responsabilità comuni» sulla ricollocazione dei migranti. «Non siamo dei guastafeste, ma serve solidarietà, non possiamo farci carico da soli dei profughi sbarcati sulle nostre coste».

Ultimo aggiornamento: 14 Dicembre, 12:00 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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