Due dei testimoni-chiave del processo scaturito dall'inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi confermano: il giovane geometra romano fu «massacrato» dai carabinieri dopo il suo arresto per droga e stavano cercando di scaricare la responsabilità di tutto sugli agenti della Polizia penitenziaria. È emerso questo dalle dichiarazioni dell'appuntato Riccardo Casamassima e dalla moglie, Maria Rosati, anche lei appuntato dei carabinieri.
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Sono stati ascoltati oggi in aula, davanti alla prima Corte d'assise, nell'ambito del processo che per la morte del geometra romano che vede imputati cinque rappresentanti dell'Arma, tre dei quali accusati di omicidio preterintenzionale. Si è ritornati a quell'ottobre del 2009, quando Stefano Cucchi fu arrestato per droga, e poi morì in ospedale una settimana dopo che ai suoi polsi scattarono le manette. Dalle dichiarazioni di Casamassima è emerso che il maresciallo Roberto Mandolini - uno dei cinque carabinieri imputati - si presentò nella caserma di Tor Vergata e, durante uno scambio di battute, prima di andare a colloquio col comandante Enrico Mastronardi, confidò «che c'era stato un casino perché un ragazzo era stato massacrato di botte dai ragazzi»; l'idea percepita fu che quei 'ragazzì altri non erano che coloro che avevano proceduto all'arresto. Il nome di Cucchi riferito a quel giovane massacrato trovò conferma da quanto appreso da Maria Rosati, anche lei appuntato dei carabinieri e compagna di Casamassima.
«Maria Rosati - ha detto il testimone - era dentro quell'ufficio e aggiunse che stavano cercando di scaricare la responsabilità sulla polizia penitenziaria», alcune esponenti dei quali furono imputati nel primo processo e poi assolti in maniera definitiva.