Il talento di P​aolo Caliari “Il Veronese”, inventore dello stile inconfondibile

Lunedì 11 Febbraio 2019 di Alberto Toso Fei
Illustrazione di Matteo Bergamelli
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Fu uno dei maggiori interpreti della Venezia del suo tempo, inventore di uno stile inconfondibile e di alcuni espedienti pittorici – come le celebri “Cene” – per i quali è ricordato ancora oggi; fu protagonista di quello che è il primo processo sulla libertà di espressione che la storia ricordi, e pur dovendo confrontarsi ogni giorno col talento di Tiziano Vecellio e Jacopo Tintoretto, suoi contemporanei, Paolo Caliari “Il Veronese” sebbe ritagliarsi uno spazio tutto suo e lo fece alla grande.

Come moltissimi veneziani di ogni tempo nemmeno lui era nato in città, bensì a Verona (eventualità che gli valse il soprannome), nel 1528. Figlio di Gabriele, uno scalpellino di origine comasca, assunse successivamente il cognome Caliari che apparteneva a sua madre Caterina, figlia naturale del nobile Antonio Caliari. La sua formazione si svolse nella città scaligera, con significative esperienze maturate anche nel trevigiano e a Mantova, presso la corte dei Gonzaga. Paolo Caliari divenne però “Il Veronese” dal 1555, quando si trasferì a Venezia (dove aveva già iniziato a lavorare da tempo) dove risiedette stabilmente fino alla morte.

Al momento del suo arrivo in città godeva già di una certa notorietà; nondimeno il clima che respirò nella Serenissima del Rinascimento ne esaltò ulteriormente le qualità e lo incoraggiò a spingersi verso traguardi artistici di grande ambizione: le sue opere più famose sono dei cicli narrativi molto elaborati nello stile e nella colorazione, ricchi di artifizi architettonici e dettagli di grande sfarzo. Si tratta di dipinti di grandi dimensioni raffiguranti allegorie o feste bibliche (come le “Cene”, in cui l'episodio evangelico è di fatto un pretesto per mettere in scena le sontuose feste dell'aristocrazia veneziana) che sono affollati di figure, in cui compaiono diversi ritratti di committenti e in un caso almeno lo stesso pittore.

Fu anzi una di queste opere – una “Ultima Cena” che Veronese dipinse nel 1573 per i monaci di San Zanipolo – a costargli un processo davanti al tribunale dell'inquisizione, del quale è rimasta la trascrizione originale controfirmata dall'artista. Scontenti del lavoro infatti, i frati fecero aprire un’inchiesta sul suo conto: “Perché – gli fu chiesto nel corso dell'udienza – nel dipinto ci sono buffoni, imbriachi, Todeschi (nel senso di protestanti), nani et simili scurrilità (un servo che perde sangue dal naso, un invitato che si pulisce i denti con una forchetta)?”. Veronese si appellò alla libera creazione artistica, pronunciando una frase rimasta celebre: “Noi pittori ci pigliamo la licenza che si pigliano i poeti e i matti”; tirò in ballo a mo' di paragone anche le nudità michelangiolesche della Cappella Sistina, ma gli fu ugualmente ingiunto di correggere a proprie spese i particolari giudicati indecenti secondo le indicazioni degli inquisitori. Più pragmaticamente Veronese cambiò il titolo in “Il convito in casa Levi”, che si può ammirare alle Gallerie dell'Accademia.

Qualche anno prima, nel 1566, Caliari aveva sposato Elena Badile, figlia del suo primo maestro a Verona, Antonio Badile. Ebbe da lei quattro figli. Due di loro, Carlo e Gabriele, assieme al fratello Benedetto Caliari furono i suoi principali collaboratori e, dopo la sua morte, proseguirono l'attività della bottega, divenuta una delle più prestigiose di Venezia, firmando talvolta collettivamente le opere con la dicitura “Heredes Pauli Caliari Veronensis”.

Tra le curiosità il fatto che un vaso dal collo molto stretto, ritratto alle spalle della Vergine in una sua celebre Annunciazione del 1578 (dipinta per la Scuola dei Marcenti alla Madonna dell'Orto e conservata anch'essa all'Accademia) sia diventato un grande classico della vetraria muranese, che lo ha battezzato col nome del pittore: vaso “Veronese”. Paolo Caliari morì a Venezia il 19 aprile 1588, ed è sepolto – assieme al fratello – nella chiesa di San Sebastiano che è una sorta di suo “pantheon” personale, per la presenza di un gran numero di sue opere. Secondo una storiella, Veronese vi visse imprigionato per un periodo, si narra per aver offeso un potente, o addirittura per aver ucciso un uomo. insomma il pittore era già una leggenda, destinata a influenzare la pittura barocca – a cominciare da Sebastiano Ricci – fino a ispirare lo stesso Tiepolo, un secolo e mezzo più tardi.
Ultimo aggiornamento: 17:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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