«Vajont, noi sopravvissuti dimenticati dal Comune»

Lunedì 8 Ottobre 2018 di Raffaella Gabrieli
Micaela Coletti
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LONGARONE Il paragone è infelice. Però Micaela Coletti è un fiume in piena. Come quell'onda che a soli 12 anni le portò via sia la mamma che il papà. E lei oggi, dopo 55 anni, chiede solo che il dramma del Vajont venga ricordato per quello che realmente fu: dolore, sofferenza, annientamento emotivo. «A dir la verità lo faccio ormai da tempo - afferma la presidente del Comitato dei sopravvissuti del Vajont - ma inascoltata. Forse sono scomoda. Basti pensare che ad oggi (ieri 7 ottobre ndr) non ho ancora ricevuto il dépliant-invito con le iniziative per ricordare la tragedia del 9 ottobre 1963».

Perché ritiene di essere una figura scomoda?
«Per come veniamo trattati io e il Comitato. Com'è possibile, ad esempio, che si sia l'unica associazione di Longarone a non avere una sede? Ce l'avevamo fino a 3 anni fa in una stanza di un edificio, di fronte al municipio, salvatosi dalla distruzione. Una delle poche parti rimaste della Longarone vecchia. Ma nel momento in cui il sindaco Roberto Padrin venne sostituito dal commissario prefettizio, in vista della fusione con Castellavazzo, siamo stati sfrattati di punto in bianco con una lettera che parlava di criticità statiche dello stabile. Peccato che ad oggi nulla sia stato fatto per metterlo in sicurezza»

 Ci sono altri episodi che le fanno affermare di essere esclusa?
«Altroché. Nel 2002 sono stata una delle prime persone a diventare informatore della memoria ma in questi 16 anni mai nessuno mi ha chiesto di accompagnare un gruppo. Altro episodio accaduto nel corso del 2018: un amico voleva offrire in dono a Longarone una statua in ferro battuto, raffigurante l'acqua sopra la diga. Ho rivolto il desiderio al sindaco, sia a voce che via mail, proponendo di porre l'opera nel portale del cimitero. Sono passati sette mesi e non ho ricevuto nessuna risposta. Tant'è che l'omaggio è stato girato agli alpini di Bassano i cui volontari diedero un contributo prezioso nelle fasi di soccorso».

Cosa vorrebbe proporre?
«Ritengo ci sia bisogno di non parlare solo della diga, di quanto è alta, della sua tenuta, ecc. Vanno spiegate, soprattutto alle nuove generazioni, le emozioni e i sentimenti che persone come me, sopravvissute a un dramma immane molto spesso rimaste sole, hanno provato allora e provano tuttora. Perché l'acqua ha ucciso quasi 2mila persone ma ha anche svuotato l'esistenza a chi è rimasto. Io, ad esempio, sono crollata allora, a 12 anni. E oggi mi ritrovo a sopravvivere. Ho perso mamma, papà, sorella, nonna. Solo la salma di mio padre venne ritrovata, riconosciuta perché aveva addosso i documenti. Ma da quando è stato rifatto il cimitero, nel 2002-05, non sono più nemmeno sicura di fermarmi sopra i suoi resti. Perché il nuovo cippo è sostanzialmente distante da dove c'era la vecchia tomba. E quindi, dato per assodato che sotto non è stato spostato niente, da chi mi fermo in preghiera? Anche il papà di una mia amica risulta in un'altra collocazione: se prima era sotto a mio papà, ora è a fianco. Ed è sufficiente il confronto di due foto di prima e dopo l'intervento per rendersi conto di ciò. Sinceramente, l'ennesima beffa».

Ha occasione di raccontare tutto ciò?
«Per farlo ho girato l'Italia in lungo e in largo.

E ho raggiunto anche vari paesi europei ed extraeuropei. Le uniche realtà che non mi invitano, guarda caso, sono quelle longaronesi. A cui non auguro di dover provare una tale sofferenza. Io invece sento forte in me il diritto, che è anche un dovere, di raccontare. Di narrare quel 9 ottobre 1963 ma anche ogni singolo giorno dopo, fatto di atroci ricordi e di profonde sofferenze accentuate dal fatto che non ci viene consentito di esternarle».

Ultimo aggiornamento: 13:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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