«Maniero non era uno stupido e così decise di collaborare»

Lunedì 7 Agosto 2017 di Edoardo Pittalis
francesco saverio pavone
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L'intervista a Francesco Saverio Pavone
Il giorno della strage di Capaci dovevo incontrare Giovanni Falcone a Roma nel suo ufficio di direttore degli Affari Penali. Doveva sollecitare l'Argentina perché mandasse le carte della rogatoria per Felice Maniero. Era un collega disponibile, sorridente, a vederlo col sorriso sembrava l'uomo meno preoccupato di questo mondo. La sera prima la segreteria ha telefonato spostando l'appuntamento al mercoledì successivo. Nessuno doveva sapere dove andava e che strada faceva Falcone. Invece.

Sulla mafia aveva ragione Falcone?
Lui era ottimista, aveva la speranza, diceva che la mafia è un fenomeno umano e per questo è destinata ad avere un inizio e una fine. Ma questa sembra qualcosa di disumano: sembra un'Idra alla quale tagli la testa e subito ricresce. Senza una vera attività di prevenzione non sarà mai debellata.

C'è mafia nel Veneto?
Qui c'è un terziario molto sviluppato ed è facile riciclare denaro proveniente dai crimini. La mafia che ricicla si avvale anche di insospettabili, di gente che raramente risulta avere avuto rapporti anche solo di conoscenza con personaggi di mafia. Gli accertamenti devono essere fatti sulle ricchezze improvvise, non si sorge dal nulla.
Francesco Saverio Pavone, 73 anni, pugliese, magistrato in pensione, ultimo incarico come Procuratore capo della Repubblica di Belluno, la mafia l'ha combattuta per decenni. Nel Veneto ha il record di anni vissuti con la scorta. Ha incastrato e poi raccolto le deposizioni del collaboratore Felice Maniero.

È arrivato a Venezia come cancelliere?
Nel 1967 e, per l'esattezza, a Mestre che non sapevo quasi che esistesse; magistrato lo sono diventato nel 1978. Da cancelliere ero addetto alla Corte d'Assise di Venezia e tra i grossi processi seguiti c'è stato quello di Marzollo, l 'agente di cambio che ha imbrogliato mezza Italia e che fece un crack di 11 miliardi di allora. Fiorello Zangrando, straordinario cronista giudiziario del Gazzettino, mi prendeva in giro: diceva che ero la persona più fotografata d'Italia, perché il cancelliere c'era in ogni foto. Furono condannati tutti i vertici delle grandi banche. C'erano i principi del foro: Pisapia, il padre di Giuliano, Gallo poi giudice costituzionale, Adolfo Gatti di Roma che aveva detto di no a De Lorenzo per il caso Sifar.

Poi gli anni da giudice istruttore
Ricordo il caso di Jessica Nordio, la ragazzina di Sottomarina strangolata e uccisa dal fidanzato perché non voleva fare l'amore. L'assassino, che l'aveva sepolta nella sabbia, partecipava alle ricerche e veniva ogni giorno in questura per avere notizie! E l'inchiesta sui sequestri di persona partita casualmente dall'indagine per una rapina conclusa con un omicidio. Nella refurtiva c'era anche un assegno poi incassato, da lì siamo risaliti a un bibliotecario di Mira: e pensare che a incastrarlo fu un maresciallo che poi si fece corrompere da Maniero! Il bibliotecario custodiva in casa un industriale sequestrato a Reggio Emilia, Severino Salati. Siamo arrivati a scoprire la banda che aveva organizzato una ventina di sequestri di persona ai danni di imprenditori di Eraclea, di Stra, di Mirano. Il capo era lo zio di Johnny lo Zingaro, Aldo Mastini.

Come si è imbattuto in Felice Maniero?
La prima volta nel 1983 per l'omicidio di Ottavio Andreoli, un boss che non si era piegato all'emergente Maniero che voleva imporgli la tangente sui cambisti del Casinò di Venezia. Tre anni dopo abbiamo ricostruito l'organigramma della banda e siamo arrivati al primo processo del 1994, quando Maniero è stato condannato a 33 anni per associazione di stampo mafioso. Alla vigilia della sentenza, era scappato dal carcere di Padova corrompendo un agente di custodia. Fu arrestato pochi mesi dopo a Torino e con tutti i reati commessi non sarebbe più uscito, così lui, che stupido non è mai stato, ha deciso di collaborare. A cascata sono venuti tutti gli altri pentiti, tra Venezia e Padova abbiamo arrestato oltre 500 persone. Una volta stavamo cercando i cadaveri di Giancarlo Ortes e della sua convivente, uccisi perché pentiti. Eravamo nella zona di Vigonza, ma non potevamo avanzare perché proprio lì c'era l'auto con una coppia clandestina in vena di effusioni. Un sottufficiale voleva arrestarli per atti osceni, consigliai di limitarsi a farli allontanare: stavamo cercando due cadaveri non due amanti.

Gli anni della Procura Antimafia e della scorta?
Ho vissuto sotto scorta dal 1989 al 2006, uno dei periodi più lunghi anche in Italia. Le minacce venivano dalla banda Maniero e dalla mafia siciliana; nessuno sapeva dove abitavo, Maniero sì e mi disse, da pentito, che c'era un infedele nella Polizia, poi individuato e condannato.

Come si vive sotto scorta?
Dire che non hai paura è da stupidi, si vive facendo finta di niente, ma sempre con la sensazione che qualcosa può accadere. Impari a guardarti sempre attorno e alle spalle. Per abitudine lo faccio ancora. E' vivere in compagnia 24 ore su 24. Con gli uomini della scorta siamo diventati amici, siamo entrati in decine di prigioni e interrogato decine di persone. I collegamenti internazionali mafia-droga ci hanno portato in Svizzera, Germania, Bulgaria, Romania, Marocco, Russia, Israele, Argentina.

La vicenda più singolare?
La volta che a Taranto, di notte, stavano rubandomi l'auto. Mi avvertono e io scendo così come sono, in canottiera e mutande, blocco i ladri con l'aiuto di un cugino, in attesa dei carabinieri, mentre mia moglie con una corda mi cala il cestino con i pantaloni e la camicia. Arriva la pattuglia e la prima cosa che mi dice è che l'auto è in contravvenzione per divieto di sosta! Era targata Venezia e non potevo parcheggiare nella zona riservata ai residenti. Tutto questo mentre continuavo a tenere a bada i ladri.
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