Marco Paolini si racconta: da clown a oratore: «Teatro come voglia di fare»

Domenica 16 Luglio 2017 di Edoardo Pittalis
Marco Paolini si racconta: da clown a oratore: «Teatro come voglia di fare»
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Paolini sognava di fare l’attore da bambino?
«Sono figlio di un ferroviere, ho interrotto una tradizione familiare. Da bambino mi pesava dover abbandonare certi giochi perché non ero così furioso di crescere. Non sapevo il dialetto, l’ho imparato sui campi di calcio avendo sempre la sensazione di capire in ritardo. Mio padre friulano e mia madre bellunese hanno allevato me e mio fratello Mario in italiano. Lui insegna all’università, si occupa da sempre di disabilità».
Marco Paolini, 61 anni, bellunese, è un grande del teatro italiano. Il suo teatro lo inventa, lo scrive, lo recita. E preferisce chiamarlo “orazione civile”. Strappa il sorriso in mezzo a una lacrima di rabbia. Col suo “Vajont” ha vinto l’Oscar della tv nel 1997. Dice Mauro Corona: «A Paolini dobbiamo essere grati perché ha fatto conoscere all’Italia quello che Tina Merlin aveva chiamato genocidio».
Come è entrato nel teatro?
«Come rifiuto della politica extraparlamentare, o meglio come stanchezza del parlare e voglia di fare. All’inizio era un’avventura con un gruppo di compagni di strada. Fare Brecht era teatro didattico e imparavi. Alla fine degli Anni ’70 era una galassia che esplose quando l’assessore Renato Niccolini s’inventò l’estate di Roma. C’era una gran voglia di mandare via gli “anni di piombo”, di utilizzare le piazze non solo per il dissenso ma anche per la festa. La fonte del mio sostentamento in quegli anni è stata la pensione di mio padre».
Che ruoli interpretava?
«Ho fatto il clown e ho fatto spettacoli di strada. Pensavo che da grande avrei voluto fare l’intellettuale, il regista. Sulla carta d’identità avevo scritto “regista”, mi sembrava più serio».
Al “suo” teatro quando è arrivato? 
«A Settimo Torinese, mentre lavoravo con Gabriele Vacis a un teatro di improvvisazioni. Caddi da un’impalcatura, gamba rotta e tre mesi di gesso, mi aspettarono. Il tempo non passava mai, leggevo in francese un racconto d’infanzia di Gochinny, l’autore di Asterix. Pensai di scrivere un racconto dei miei ricordi di colonia. Mi accorsi che mi veniva facile costruire storie e ho continuato lungo quella strada».
«Ho iniziato nel 1978, la data del mio libretto di lavoro. Ho partecipato a spettacoli di cui sono fiero, anche un “Romeo e Giulietta” e la “Trilogia della villeggiatura”, sono andato in paesi lontanissimi con attori polacchi e russi. Questo calderone ha prodotto il mio mestiere. Sono un attore che usa la tradizione orale facendola passare attraverso il corpo educato anche a cose strampalate. Nella mia formazione ho lavorato più di capriole che di intonazione. Quello che fai deve essere musicale, devi suonare le parole che hai».
Poi è arrivato il Vajont.
«M’imbatto nella storia del Vajont e nel libro di Tina Merlin che rimonto, 37 mila parole, le ha contate il computer. Vajont era un’arma che ti colpiva; archiviare quella storia era pericoloso come l’indifferenza. Il libro di Tina è una coltellata perché c’è il prima e raccontandolo prende forma di tragedia. Quell’Italia, come anche questa di adesso, è dominata da una lettura comica del mondo. Ci identifichiamo nella commedia all’italiana, paghiamo perhè ci faccia ridere: lo status di comico è maggiore di quello di tragico. L’intellettuale del nostro tempo sembra essere Crozza col suo buttare tutto in commedia. Il senso della commedia è aiutare “a passà ‘a nuttata”, quello della tragedia è che dura di più e ti lascia il dolore. Ma chi paga per piangere? Col Vajont la gente non solo ascolta la storia, ma poi piange, s’arrabbia, torna a riascoltarla. È una tragedia, non semplicemente teatro politico. La definizione che mi viene è “orazione civile”. “Vajont” è stato importante per diventare un personaggio pubblico e avere maggiore libertà di scelte successive».
Ha lavorato nel cinema con Nanni Moretti, Mazzacurati, Checco Zalone…
«Non sono un esperto di cinema, anche se lo produciamo con la JoleFilm. Ma mi è difficile fare il cinema come attore per altri, come in teatro fare l’attore per altri. Però quando mi chiamano rispondo; cerco disperatamente un ruolo di cattivo-cattivo, è più divertente».
Il rapporto con gli scrittori e l’adattamento del “Sergente nella neve”?
«Io scrivo ogni giorno, la mia è una scrittura diaristica di lavoro, non destinata al lettore. Sono molto attirato da quelli che scrivono per i lettori. Se io prendo anche la più bella pagina di uno scrittore, non riesco a non cambiarla. “Il sergente nella neve” è un errore mio, pensavo fosse facile, pensavo che un libro letto alle medie fosse una gemma semplice, non montata su un anello prezioso. Avevo voglia di parlare della guerra con le parole di un soldato. Era talmente asciutto che se restavi dentro mancava una cosa importante: il nemico! Ogni drammaturgia è fondata sull’antagonista. È un libro disarmante perché ce la puoi sempre fare, puoi sempre arrivare “a baita”. Sono scappato tre giorni prima dell’esordio e sono andato sul Don a cercare il caposaldo con le carte di Rigoni, la campagna incredibile dove il tempo si è fermato, dove si aprivano le isbe quando dicevi che eri italiano. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino».
Cosa ha di speciale il paesaggio veneto?
«L’aspetto in questo momento più caratteristico sono i “disertori”. Se tu fai le statali che salgono verso le Prealpi, quelle dove ancora il traffico è intasato, ti accorgi della diserzione. Per gli occhi chiusi dei balconi delle case abbandonate. Non potevano reggere le lenzuola stese diventate grigie e hanno costruito le case in seconda fila, nelle retrovie. Hanno abbandonato il fronte. È come visitare delle ghost town, ma non si buttano giù perché non si sa mai. Dei disertori, di quelli che si sono imboscati in retrovia, restano trincee abbandonate. Hanno provato ad affittarle ai neri che quando hanno capito se ne sono andati. Fanno il paio coll’abbandono di Venezia negli Anni ’70, ma oggi a Venezia ci sono persone vitali che non hanno intenzione di cedere la città ai turisti e questa vitalità è la cosa che mi piace di più. Venezia non come una Pompei vivente, ma come bene comune».
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Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 08:10 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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