Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Jackie, il Potere, la Morte:
la leggenda è tutto quello che conta

Sabato 25 Febbraio 2017
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L’autore di alcuni dei film più prodigiosi dell’ultimo decennio, da “Tony Manero” a “Neruda”, è anche uno dei più maltrattati della storia recente dei festival da giurie distratte o apatiche al suo formidabile cinema; e il paradossale recente premio alla sceneggiatura per “Jackie” a Venezia rappresenta più una presa in giro che un riconoscimento. Ora il cileno Pablo Larraín arriva in sala proprio con questo suo secondo, consecutivo anti-biopic su una figura laterale al potere: dopo il poeta-senatore cileno, ecco la first lady statunitense. Nel primo approccio con il cinema americano, Larraín rilegge così i giorni che precedettero e seguirono l’assassinio di JFK, attraverso la traumatica esperienza di Jacqueline.
Nel suo cinema fortemente spalancato sulla Morte e sui morti, in una concezione obitoriale del racconto come forse non si era mai vista in modo così ossessivo nella carriera di un regista, emerge ancora una volta, come nucleo assoluto, il rapporto dei protagonisti (reali o immaginari) con il Potere. Così la figura di una donna con il suo trauma, la tenace volontà, le disillusioni (le promesse non mantenute, da Dio e dal marito) e anche le proprie contraddizioni lacera lo schermo, molto di più di ogni apparenza chiusa in quel tailleurino rosso, standard di una bellezza da esibire.
Come era già accaduto in “Neruda” non è più il Potere in sé a essere la chiave determinante di tutti i rapporti, ma la sua immagine, la sua mitologia (JFK come un nuovo Artù, il riferimento al musical “Camelot”, che attraversa il film), costruita sapientemente sulla comunicazione, su ciò che resterà veramente nella memoria: ecco perché Jackie si ostina a volere i funerali del marito sfarzosi come quelli di Lincoln (altro presidente ucciso), non solo ricordato per quello che ha fatto ma anche per come è stato tramandato, come dice la notevole Natalie Portman, durante la lunga intervista che in pratica è tutto il film.
Al primo impatto negli Usa, senza i suoi tradizionali collaboratori, Larraín non perde la lucidità di codificare gli avvenimenti attraverso le chiavi del suo cinema (l’autopsia di JFK rimanda a quella di Allende in “Post Mortem”, che qui diventa l’esame alla morte dell’innocenza di una Nazione intera), non per ca(r)pire una verità, ma i meccanismi che la inducono a essere rappresentata, perché comunque il Potere è più forte di chi lo esercita.
Certo ci sarebbero voluti un po’ di violini in meno (il film va quasi a finire con una pendenza leggera verso il melò), ma questo formidabile ritratto di donna (e di una Nazione) ha la forza di un cinema che ha voglia ancora di scavare dentro le identità della Storia e degli uomini.
 
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