Film choc con una evirazione,
il regista Kim: «No alle censure»

Mercoledì 4 Settembre 2013 di Adriano De Grandis
Una secna del film
VENEZIA - Ogni Paese ha la sua censura. D’altronde se un film dall’inizio alla fine taglia organi sessuali come fossero salamini, pu anche aspettarsi che chi si erge a "poliziotto della visione" possa tagliare a sua volta. Perché le censure sono così: ogni cosa che possa alterare il loro equilibrio e ogni situazione che sembra essere estrema, specie in campo sessuale, merita la mannaia. Abbiamo forse dimenticato i nostri capolavori degli anni passati? Abbiamo dimenticato cosa facevano ai film di Pasolini, Bertolucci eccetera? Dunque: ora "Moebius". In Corea lo vedranno mutilato, al Lido ieri si è vista la versione integrale, che ha lasciato anche una scia di disgusto (ma anche molti applausi), specie nella scena in cui la madre taglia il pene al figlio e se lo mangia voracemente, perché non possa essere riattaccato: mai visto un "rapporto orale" così profondo, nemmeno nel cinema porno.



Kim Ki-duk ama Venezia, Venezia ama Kim: premiato più volte, l’anno scorso anche con il Leone d’oro, il regista coreano, che qui aveva portato anche "L’isola" e "Ferro 3", adesso cerca di spiegare questo film controverso, simbolico e quasi grottesco. Partendo dai tagli imposti dagli altri, non dalla sceneggiatura.



«Ho dovuto tagliare tre minuti e adesso non è più lo stesso. La censura viene applicata per motivi politici. Spesso impedisce a giovani talenti di girare per anni, creando un serio danno a tutta l'arte cinematografica. È un problema che va risolto una volta per tutte. Ma al mio Paese sono abituato, più volte in passato mi hanno bollato come la vergogna della Corea. Io invece amo il mio Paese, ma certo non posso chiudere gli occhi di fronte agli aspetti più contraddittori e oscuri», dice con un sorriso, ma si capisce che è profondamente seccato e infastidito.

Nemmeno sui temi proposti, Kim si dice così d’accordo: «Ho ho chiesto a una ventina di giornalisti italiani se avessero trovato nel mio film il tema dell'incesto. Nessuno di loro ha risposto sì, tranne una: non che l'avesse trovato, ha detto solo che la storia a un certo punto sembrava prendere quella direzione, ma non lo fa. Il film ruota intorno al concetto di famiglia e sesso e le dinamiche che questi temi provocano all'interno. Non è un film su tutte le donne coreane, ma in Corea c'è questa idea della vendetta estrema per un tradimento. Le donne coreane sono il risultato di come siamo noi: fanno paura.



Però la condizione edipica affiora nettamente: «Non conosco molto la tradizione occidentale, la tragedia greca ed Edipo. Volevo semplicemente partire dai concetti sul sesso che esistono all'interno della società coreana, sviluppandoli ed estremizzandoli».

Il suo resta un cinema violento, anche se Kim giustamente chiede di non dare troppe etichette: «So che all’estero il mio cinema è molto amato e anche premiato. Venezia è sempre stata generosa con me. Ma io non faccio film violenti, in realtà io voglio solo raccontare come si esprime una società. Io osservo quello che capita attorno a me e poi cerco di riflettere, facendo un film». Senza dialoghi. «Io che ho sempre fatto film piuttosto scarni di dialoghi ho tolto la parola del tutto concentrandomi sulle immagini». Tranquillo: bastano.
Ultimo aggiornamento: 10:23 © RIPRODUZIONE RISERVATA