Modelle, bistecche e affari: ecco chi è il vero Trump

Sabato 28 Maggio 2016 di Flavio Pompetti
Modelle, bistecche e affari: ecco chi è il vero Trump
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NEW YORK - Si dice Queens, e si pensa ai palazzoni popolari che traboccano di immigrati. Le strade affollate di gente vestita nei modi più disparati; insegne e bandiere di tutti i colori, una lingua sopra all’altra in una babele linguistica, estetica e culturale che non ha uguali al mondo. Poi si arriva a Jamaica Estates dove è nato Donald Trump, e si scopre che Queens è anche la residenza di chi tra i vari gruppi etnici è riuscito a farcela, e si è costruito la villetta di imitazione Tudor o neoclassica, a due passi dal tempio del tennis di Flashing Meadows e lungo l’autostrada che porta dritto al cuore di Manhattan. La seconda sorpresa è scoprire che l’uomo che ha costruito grattacieli imponenti, e che è ossessionato dall’idea di misurare tutto per ordine di grandezza, dalle sue dita della mano ai caratteri della firma che mette sui progetti finiti, è nato in una casa relativamente modesta e di poca ostentazione, in un quartiere dove nessuna delle abitazioni supera l’altezza di due piani.

IL QUARTIERE
Trump non è il solo immobiliarista newyorkese ad essere nato nella parte nobile del Queens. Suo padre faceva parte di un gruppo di piccoli imprenditori in seno a famiglie immigrate dall’Europa (Le Frak, Kalikov ad esempio) che si sono fatti le ossa popolando le vaste periferie della città di casette per i nuovi arrivati, prima di attraversare l’East River e proiettare verso l’alto la loro ambizione di successo. Frank Trump (nome anglicizzato dall’originale tedesco Drumpf) aveva intravisto fin dall’infanzia tra i suoi quattro figli lo spirito combattivo di Donald. Quando la scuola di Kew Forest gli rimandò a casa il rampollo tredicenne perché troppo indisciplinato, lo arruolò in una scuola militare, che oggi Trump cita ancora oggi tra le sue esperienze più formative. Donald era già un giovane sicuro di sé, pronto alla sfida come un gallo da combattimento. 

Quando apparve sulla scena immobiliare di Manhattan, a trentadue anni, una laurea in economia alla Wharton e con una partecipazione nell’impero da 400 milioni di dollari in immobiliare che suo padre aveva costruito, lo fece attaccando contemporaneamente sul fronte delle costruzioni e su quello della socialità chiassosa e appariscente che cominciava a legarsi a New York dopo la dura crisi dei ’70. Tempi tumultuosi, fatti di speculazione selvaggia (il primo rapporto del tribunale che lo riguarda è del 1975, somma di violazioni nell’amministrazione di 39 palazzi di appartamenti in affitto), e di frequenti alti e bassi, ma sempre con una modella longilinea al fianco. Il colpo di fortuna fu l’acquisto del terreno intorno alla Stazione Centrale sul quale oggi sorge l’ Hyatt Hotel. 

LA TORRE
Il sigillo sulla città la costruzione della Trump Tower, con la quale ha avuto inizio la fama di eccentrico megalomane che lo circonda. Oggi si interessa di tutto: dai campi da golf in Bahrain alle bistecche del suo ranch texano, dal vino alle cravatte. I concorsi di bellezza e gli show televisivi invece li ha lasciati alle spalle, al momento in cui ha deciso di dominare i media con la sua campagna presidenziale. I media l’hanno seguito con una cura maniacale, perché comunque sia andata, tra le bancarotte dei casinò di Atlantic City e la resurrezione a Las Vegas, ha sempre fatto notizia e prodotto pubblicità. La presenza di mogli da catalogo di alta moda al suo fianco lo ha aiutato a imporsi, sia nello sfarzo dei matrimoni, che nel fracasso dei due divorzi. La cecoslovacca Ivana oltre a dargli i tre figli che oggi siedono nel consiglio di amministrazione della Trump Organization fu la prima a chiamarlo «The Donald», titolo tra il nobiliare e il clownesco che è ancora usato dai suoi detrattori. La georgiana Marla lo rese una presenza stabile su tutti i tabloid fino alla fine del rapporto nel ’99. La slovena Melania gli tributa al momento un’ammirazione incondizionata, e lo difende dalle frequenti accuse di misoginia.

LA TENTAZIONE
La politica lo ha tentato a lungo, da quando nell’87 disse per la prima volta che se avesse mai voluto puntare alla presidenza si sarebbe presentato da democratico. L’anno dopo quando Gorbachev arrivò a New York per la storica stretta di mano con George Bush senior, Trump lo invitò a cena, sostituendosi ad una diplomazia americana ancora perplessa di fronte all’ex nemico. Per il resto, l’unica campagna che ha condotto è stata quella per costringere Obama a mostrare il suo certificato di nascita. Le battute satiriche lo hanno inseguito per anni per quella vicenda al limite della razionalità, ma il movimento dei birthers cui l’iniziativa ha dato vita è stato il suo trampolino di lancio quando ha deciso la scorsa estate di lanciarsi nella corsa presidenziale. 

LA STRATEGIA
Al suo fianco non ha i media, anche se li ha stregati tutti con il suo protagonismo anche fuori dagli Usa, né tutto sommato ha un partito schierato dietro di lui. Ma quando ha l’occasione flirta con tutti: dai suprematisti bianchi agli elettori di Sanders sui quali sa di avere un ascendente. Non è il primo populista e isolazionista a calcare la scena: dietro di lui ha il fallimento di Joseph McCarthy nel ‘68. Ne’ è il primo aspirante alla presidenza a invocare cataclismi e minacciare l’autoritarismo: prima di lui ci aveva provato George Wallace nel ’68. Ma nessun altro americano prima di lui è mai riuscito a cavalcare l’idea così popolare dell’uomo che si reinventa dalle radici e si trasforma in virtù della sola volontà, fino alla soglia della Casa Bianca. 
Ultimo aggiornamento: 11:38 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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