Theresa May mette la sua firma su una Brexit senza compromessi.
Il "goodbye" del primo ministro all'Unione spazza quindi via in un solo colpo mesi di speculazioni sul futuro del Paese e sulle possibili soluzioni da adottare per tenere un piede in Europa. Non ci sono vie di mezzo. «Vogliamo un rapporto nuovo e alla pari con l'Ue», ha sottolineato la leader Tory, aggiungendo che un'adesione «parziale» non è possibile. L'idea è di creare una «Global Britain», che sia «più forte, giusta, unita e rivolta all'esterno», libera però dai vecchi legami con Bruxelles, a partire proprio dal mercato unico. Fra i 12 punti del piano May è quindi previsto un accordo di libero scambio con l'Europa «che sia favorevole a entrambi» ma che soprattutto possa permettere alle imprese del Regno di continuare a operare senza problemi nel loro principale mercato.
Al massimo si prospetta la permanenza nell'unione doganale, ma con un'intesa del tutto nuova e pensata appositamente per Londra. E May non ha mancato di fare una serie di minacciosi avvertimenti, affermando ad esempio che rispetto ad un trattato non favorevole tra Londra e Bruxelles è meglio niente. La Gran Bretagna quindi si potrebbe ritrovare ad affidarsi solamente alle regole del Wto per i suoi scambi internazionali. Scenario non certo auspicato dal governo conservatore ma rispetto al quale viene già preparata una contromisura, che suona come una ulteriore minaccia a Bruxelles: il Regno, per attirare investitori da tutto il mondo, potrebbe adottare un regime a bassa tassazione, inseguendo paradisi fiscali come la Svizzera o Singapore. La premier cerca anche forme di compromesso, ad esempio sui tempi, con un accordo che dovrebbe essere «graduale» per permettere ad alcuni settori, in particolare quello economico, di adattarsi alla Brexit. Se da un lato vuole introdurre controlli alle frontiere per ridurre l'immigrazione dai Paesi Ue ribadisce la volontà di arrivare rapidamente a garantire lo status dei milioni di cittadini comunitari, tra cui molti italiani, già residenti nel Regno, qualora venga fatto lo stesso per gli "expat" britannici nel continente. E un tentativo di mediazione tutto interno è la promessa di far votare al Parlamento di Westminster l'accordo finale sulla Brexit, sperando che i deputati e i lord non si oppongano alla volontà popolare bloccando l'uscita dall'Ue.
La schiera dei critici del piano in patria e all'estero è piuttosto ampia. Il leader Labour Jeremy Corbyn attacca May sul rischio che alla fine la Gran Bretagna si trasformi in una «economia offshore», rifugio di evasori che scappano dai Paesi europei. Mentre la leader scozzese Nicola Sturgeon si prepara alla possibilità di un secondo referendum sull'indipendenza perché il piano di Londra va contro «l'interesse nazionale» di Edimburgo e l'uscita dal mercato unico rischia di essere «catastrofica» per l'economia locale. Intanto a Bruxelles i vertici dell'Ue non si sbilanciano, preferendo aspettare l'attivazione dell'articolo 50, prevista entro la fine di marzo, e quindi l'avvio delle trattative. Il capo negoziatore europeo, Michel Barnier, si limita a dire che «l'accordo sull'uscita ordinata è il prerequisito per una futura partnership». Mentre il gruppo dei Verdi a Strasburgo attacca, affermando che Londra ha scelto una «strategia perdente» e i sudditi di Sua Maestà ora rischiano di ritrovarsi in un Paese dominato da tassazione ingiusta e deregulation. A Berlino invece, il governo tedesco cerca di fare buon viso a cattivo gioco, dicendo che almeno ora «c'è un pò più di chiarezza sui piani britannici».