Tasse e crescita/ L’aumento dell’Iva e i pericoli sottovalutati

Mercoledì 19 Aprile 2017 di Osvaldo De Paolini
La proposta di uno scambio tra un aumento dell’Iva e una riduzione delle tasse sul lavoro è una ricetta classica dell’Ocse. Ma non significa che sia una buona idea. Nell’intervista rilasciata al Messaggero domenica scorsa, il ministro dell’Economia, Piercarlo Padoan la giudica «un’opzione sostenuta da buone ragioni»; e tuttavia subito precisa che se è vero che «le scelte politiche non debbono ignorare gli aspetti tecnici», non meno vero è l’opposto. 

Il suo è dunque solo un ragionamento, al quale non necessariamente debbono seguire provvedimenti già incardinati. Anche perché la questione dell’aumento dell’Iva - indipendentemente dallo scambio con il taglio del cuneo fiscale, che resta indispensabile per una ripresa più sostenuta - è perlomeno controversa.
L’Ocse ritiene che un aumento delle aliquote, in particolare di quella agevolata (10%) e della minima (4%), abbia pochi effetti sui consumi. Si tratta di una convinzione però tutta da verificare. Difficile dire prima quali impatti potrebbe avere un aumento sia pure modesto, però possiamo intuirne fin da subito i rischi. Del resto, per comprendere quanto pericolosi possano rivelarsi mutamenti degli equilibri fiscali non adeguatamente meditati, basti ricordare un esempio vicino nel tempo. 

L’altra ricetta classica proposta dall’Ocse in modo ricorrente è infatti l’aumento della tassa sulle prime abitazioni, sempre in cambio di una riduzione del carico fiscale (Irpef e contributi sociali). 

Non a caso nello stesso report sull’Italia in cui viene proposto lo scambio Iva/cuneo, l’organizzazione parigina torna a ribadire la necessità di reintrodurre il prelievo sulle prime case eliminato dal governo Renzi. 
Ma nessuno dei nostri politici oggi oserebbe riproporre un’esperienza che, promossa dal governo Monti sia pure con l’intento di rimettere ordine nei conti, per l’Italia si è rivelata devastante, producendo un mercato immobiliare annichilito, un settore delle costruzioni (da sempre voce portante del Pil nazionale) in ginocchio, oltre 500 mila posti di lavoro bruciati e insolvenze a raffica per le imprese che non hanno retto provocando, quale effetto collaterale, il gonfiamento oltre misura dei crediti deteriorati nei portafogli delle banche.
Insomma, non proprio una storia di successo. E se il mercato della casa ora sta lentamente riprendendo, tra i motivi principali vi è senza dubbio la cancellazione dell’Imu modello Monti.

Per tornare all’Iva, davvero è ipotizzabile che aumentare considerevolmente le aliquote più basse, quelle che gravano su beni di prima necessità, come il latte, il burro, gli ortaggi, ma anche le spese socio-sanitarie, possa avere effetti limitati sui consumi? Il dubbio è più che legittimo. E non solo perché lo dicono Renzi o la Confesercenti. E’ un fatto che l’Iva la pagano tutti, mentre il taglio del cuneo fiscale riguarderebbe solo una parte della popolazione: i lavoratori dipendenti. Gli autonomi o i pensionati non avrebbero alcun beneficio, ma solo la conseguenza negativa dell’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, se la decisione fosse di rialzare le aliquote più basse. Va ricordato che in Italia l’Iva minima al 4% è storicamente presente nella struttura di quest’imposta; tanto è vero che i vari governi non hanno avuto particolari problemi a difenderla anche davanti a norme Ue che prevedono di regola un’aliquota ridotta non inferiore al 5%. Al di là dei calcoli a bocce ferme, ciò vuol dire che toccare questa aliquota - vista la platea che ne verrebbe maggiormente colpita - potrebbe avere un impatto psicologico imprevedibile.

Quanto all’aliquota del 10%, si ricorda che essa si applica ai medicinali cui devono ricorrere molte persone anziane; ma si applica anche a molte attività turistiche (alberghi, ristoranti, eccetera) e quindi alzarla vorrebbe dire incidere direttamente sulla competitività di un settore che per il nostro Paese è particolarmente strategico.
Probabilmente effetti minori si potrebbero avere con un ritocco dell’Iva ordinaria, quella oggi al 22%, peraltro già cresciuta di due punti durante gli anni della crisi: chiunque può comprendere, infatti, che in questo caso un paio di punti in più non modificherebbero granché la filiera relativa dei prezzi e quindi dei consumi. Ben altro effetto avrebbero invece quegli stessi 2 punti di aumento applicati all’aliquota del 10% o, peggio, a quella del 4%. Meglio allora concentrarsi, come il governo sta giustamente facendo, sul recupero del cosiddetto tax gap, la differenza tra il gettito potenziale dell’Iva e il gettito reale, che ancora viaggia attorno a 40 miliardi di euro, nonostante i significativi progressi ottenuti grazie alle misure sullo split payment, il meccanismo per il quale le fatture della Pa sono pagate senza Iva. 

E c’è un’ultima considerazione che deve indurre a riflessione: se è vero - come è vero - che l’Iva è l’imposta più evasa nel nostro Paese, anche con frodi particolarmente elaborate, alzare le aliquote per coloro che invece la pagano regolarmente potrebbe essere un messaggio controproducente, se non addirittura un ulteriore incentivo/giustificazione all’evasione.
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