​I dati Istat/ Picco occupazione record per le donne. Ma meno mamme

Martedì 1 Agosto 2017 di Maria Latella
Anno di grazia 2017, mese di giugno: quasi dieci milioni di italiane hanno un lavoro. Il 48,8 per cento, il dato più alto dal 1977. Il dato più alto per quel che riguarda l’occupazione femminile, sostiene l’Istat che tiene i conti dal 1977. La buona notizia si inserisce in un filone ottimista perché l’Istat segnala anche una diminuzione della disoccupazione, scesa all’11 per cento. 

Nuvole rosa si allungano, dunque, sulla nostra estate ma prima di vedere quanto e se siano rosa davvero, torniamo per un momento al 1977, all’anno del confronto. Chi c’era, il ‘77 lo ricorda per i carri armati a Bologna, per la fiammata degli “indiani metropolitani”, un tentativo di risposta light ed ironica alla crescente cupezza dei tempi e della lotta armata. Chi c’era ricorda anche il ‘77 perché si parlava molto di femminismo, e slogan come «l’utero è mio e lo gestisco io» erano diventati lessico familiare. L’utero è mio e lo gestisco io, già.

Non percepimmo, allora, tutta la potenza di quell’asserzione. Oggi, quarant’anni dopo, è possibile valutarne meglio l’effetto sull’insieme della società italiana. Le donne italiane non trovavano risposte alla domanda di parità. Quarant’anni fa in Italia non furono varate politiche di welfare che le aiutassero a bilanciare modernità e famiglia. Per loro, per quelle donne e per tutte le altre venute dopo, fu inevitabile aggrapparsi a quello slogan. Gestire la riproduzione fu la sola possibilità lasciata alle donne italiane. Da allora, in quarant’anni, il tasso di natalità ha infatti continuato, inesorabile, la sua corsa verso la crescita zero, anzi sotto zero.

Cos’è cambiato, oggi, rispetto al 1977? Molto poco, se guardiamo alla possibilità di bilanciare lavoro e famiglia. Nel certificare che a giugno 2017 l’occupazione femminile è cresciuta fino al 48,8 per cento, l’Istat ci dice anche che, purtroppo, molte italiane possono pure trovare un lavoro ma a un certo punto incroceranno lo stesso bivio che si parò davanti alle loro madri, zie, o sorelle maggiori: tenersi il lavoro e non avere figli, o avere figli e rinunciare al lavoro?
L’utero è il loro, tante grazie, ma pure questa scelta dolorosa continua a gravare solo sulle loro spalle. Trentamila - dicansi trentamila - lavoratrici nel solo 2016 hanno presentato le dimissioni scegliendo la maternità. Quando si tratta di libera scelta, niente da obiettare. Ma molto spesso la decisione è obbligata: con il mio stipendio pago la baby sitter e in più coltivo i miei sensi di colpa, oppure smetto di lavorare e sto col mio bambino? Le trentamila donne che nel 2016 sono uscite dal mercato del lavoro tra qualche anno forse vorranno rientrare. Ne avranno la possibilità? I dati Eurostat dicono di no.

Il 48,8 per cento delle italiane ha un lavoro, ma sono ancora poche, il numero è ben lontano dalla media europea collocata al 61,6 per cento. In Svezia lavora il 74,6 per cento della popolazione femminile, in Norvegia il 71,9 per cento. Peggio di noi in Europa stanno solo le lavoratrici greche (44,1 per cento). 

Ormai basta mettere il pilota automatico e chiunque, dal politico al parroco della parrocchia sotto casa, dal sindacalista ai registi che hanno scoperto il filone “donne e lavoro” , tutti, ma proprio tutti, vi diranno la stessa cosa: in Italia mancano asili e scuole materne e per questo le donne non lavorano. È così, ma è mai possibile che, sempre secondo l’Istat, gli asili siano, o restino, roba da privilegiati, ogni cento bambini ci sono solo 22 posti? E sì che, mi ripeto, di bambini ne nascono sempre meno.

È mai possibile che in quarant’anni i governi locali e nazionali non siano stati in grado di cogliere la potenza (e la minaccia) di quello slogan del ‘77, l’utero è mio e lo gestisco io? Possibile fossero così ciechi da non capire che un Paese nel quale metà della forza lavoro sta a casa, è un Paese che avrà problemi di crescita?

Si è detto: era la scelta della Democrazia Cristiana. Tenendo a casa le donne, difendeva la famiglia. Ma anche la prudentissima e assai conservatrice Germania, che ha avuto il democristiano Kohl e la democristiana Merkel, a un certo punto si è data una mossa. Era la nazione delle tre K: kirche, kuchen, kinder (chiesa, cucina e bambini).

Questa, fino agli anni Ottanta, era la triade cui avrebbe dovuto ispirarsi ogni buona tedesca. Poi però a Berlino hanno capito che un Paese cresce, anche demograficamente, se donne e uomini lavorano in equilibrio. E il tasso di lavoratrici è salito pure in Germania, Oggi è al 71 per cento. Certo, ogni tedesca, se vuole, può stare a casa e ricevere un sussidio statale ad ogni figlio che nasce. Certo, in provincia le mamme che mandano all’asilo i pupi sotto i tre anni sono ancora guardate con sospetto. Anni fa la ex presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, mi raccontò che la sua nipotina, figlia di sua figlia che è ricercatrice in Germania, finì sul giornale per essere andata all’asilo a “soli” diciotto mesi. Però intanto gli asili ci sono, a Berlino come nei villaggi di campagna.

Dopo tante chiacchiere e tanti convegni, qualche segnale di cambiamento si coglie ora anche in Italia. Ma, appunto, sono solo segnali. Nel Lazio, per esempio, con i progetti “Plus” finanziati dall’Unione Europea la Regione ha realizzato tra Guidonia, Pomezia, Albano e Frosinone cinque nuovi asili e tre scuole materne, e ha erogato voucher alle famiglie rimaste escluse dalle graduatorie perché pagassero un asilo privato. Indizi confortanti come conforta il dato dell’Istat, ma siamo ancora lontani dal resto d’Europa.

Accontentarsi di questo 48,8 per cento di donne al lavoro sarebbe sottovalutare gravemente gli ostacoli nella marcia verso una società più paritaria e dunque più giusta. Uno studio diffuso da Accenture ricorda infatti che se la parità di retribuzione tra uomo e donna è quasi a portata di mano (le laureate del 2020 potrebbero non avere più questo problema) ciò accadrà soltanto nei Paesi “maturi” . La domanda è: in quale elenco inseriamo l’Italia? Nella classifica dei maturi (Germania, Francia, i soliti Paesi del Nord Europa) o in quello dei rimandati a settembre, probabilmente ancora insieme a Grecia e Spagna?

Molto dipenderà anche da noi. Da noi madri, insegnanti, role model. Le ragazze del 2020 (e anche quelle di ieri e di oggi) devono aver ben chiaro che la parità retributiva dipende dal corso di studi scelto (Ingegneria per dire, darà più chance di Scienza delle comunicazioni). Dipenderà dalla nostra digital fluency, dalle competenze tecnologiche. Pensarci, in questo agosto, prima di iscriversi all’università.
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