La censura secondo Mo Yan, lo scrittore di "Sorgo rosso": «Ci rende più creativi»

Domenica 9 Giugno 2013
Immagine della tradizione d'Oriente
Mo Yan uno degli scrittori cinesi pi famosi e tradotti al mondo. Nato nel 1955 nella provincia dello Shandong da una famiglia di agricoltori, si arruolato nell’esercito popolare di liberazione all’et di 20 anni e in quello stesso periodo ha iniziato a scrivere.

Mo Yan è uno pseudonimo che in cinese significa “non parlare”, e fa riferimento al fatto che in Cina esprimersi in maniera troppo franca era considerato inopportuno. Ha pubblicato molti romanzi e raccolte di racconti, tra cui Sorgo Rosso (1987), Grande seno, Fianchi larghi (1996), Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2006) e, più di recente, Le rane (2009), che attingono tutti ai modi dialettali dello Shandong e all’architettura narrativa del realismo magico.



Molti suoi romanzi sono ambientati in un luogo in parte romanzato ma che trae spunto dalla sua città natale, Gaomi; un po’ come faceva Faulkner con il sud degli Stati Uniti. Cosa la spinge a ritornare a questa comunità, in parte frutto della sua immaginazione? E la consapevolezza di avere lettori in tutto il mondo muove, in qualche modo, la sua attenzione?

«Quando ho iniziato a scrivere l’ambientazione corrispondeva a luoghi reali, e la storia era la mia esperienza personale. Ora che una parte sempre più grande della mia opera viene pubblicata, la mia esperienza quotidiana si sta esaurendo, e ho bisogno di aggiungere un tocco di immaginazione, a volte persino un po’ di pura fantasia».



Parte del suo lavoro ricorda l’opera di Grass, Faulkner e García Màrquez. Ha avuto modo di leggere questi autori in Cina da ragazzo?

«Quando ho iniziato a scrivere era il 1981, quindi non ho potuto leggere nulla di García Màrquez o di Faulkner. Solo nel 1984 ho avuto modo di leggere per la prima volta le loro opere, che senza dubbio hanno avuto un’influenza enorme sulla mia produzione. Mi sono reso conto che la mia esperienza di vita è piuttosto simile alla loro, ma l’ho scoperto solo in un secondo momento. Se avessi letto i loro libri prima avrei già realizzato un capolavoro, così come hanno fatto loro».



Le sue prime opere, come Sorgo Rosso, sembrano essere ascrivibili al genere del romanzo storico, per qualcuno sono persino da considerarsi romanzi rosa, mentre in tempi più recenti hanno virato su ambientazioni e temi decisamente più contemporanei. La sua è stata una scelta consapevole?

«Quando ho scritto Sorgo Rosso avevo meno di trent’anni, quindi ero piuttosto giovane. All’epoca la mia vita era piena di idee romantiche sui miei antenati. Scrivevo delle loro vite ma non ne sapevo un granché, e per questo introducevo molti elementi immaginari. Quando ho scritto Le sei reincarnazioni di Ximen Nao avevo più di quarant’anni; non ero più un giovanotto ma un uomo di mezza età. La mia vita ora è diversa: più attuale, più contemporanea, e la crudeltà sanguinaria di questi tempi limita il romanticismo che provavo un tempo».



Lei scrive spesso nella lingua dei laobaixing locali, più precisamente nel dialetto dello Shandong, che conferisce alla sua prosa un tono piuttosto duro. Trova frustrante pensare che a volte espressioni idiomatiche e giochi di parole possano andar persi nella traduzione? Oppure, insieme a Howard Goldblatt, il suo traduttore per la lingua inglese, riesce ad aggirare questi ostacoli?

«Sì, in effetti nei miei primi libri facevo ampio uso del dialetto locale, di espressioni idiomatiche e di giochi di parole, perché all’epoca non potevo immaginare che sarebbero stati tradotti in altre lingue. Solo in seguito mi sono reso conto di quanto questo tipo di linguaggio fosse problematico per il traduttore. Ma non potrei abbandonarlo, perché è vivo, espressivo, ed è ciò che più caratterizza la cifra stilistica di uno scrittore. Quindi, se da un lato posso limitare l’uso che faccio di espressioni idiomatiche e giochi di parole, dall’altro spero che i traduttori riescano a restituire il tutto in un’altra lingua. Questa sarebbe la situazione ideale».



Molti suoi romanzi sono incentrati su personaggi femminili molto forti: Grande seno, Fianchi larghi, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao, Le rane. Si considera femminista o semplicemente le piace scrivere da una prospettiva femminile?

«Innanzitutto ammiro e rispetto le donne. Penso che siano nobili, e che le esperienze di vita e le difficoltà che riescono a sopportare siano sempre di gran lunga superiori rispetto a quelle di un uomo. Di fronte ai grandi disastri le donne sono sempre più coraggiose. Credo sia perché hanno la capacità di dare la vita, perché sono anche madri, e la forza che scaturisce da questo è inimmaginabile. Nei miei libri cerco di mettermi al posto loro, di comprendere e interpretare il mondo attraverso la loro prospettiva. Ma non sono donna: il mondo che ho interpretato nei miei libri immaginandomi donna potrebbe non essere ben accolto dalle donne stesse, e non potrei farci niente. Amo e ammiro le donne, ma sono e resto un uomo».



Evitare la censura è una questione di astuzia? E fino a che punto le strade spalancate dal realismo magico permettono a uno scrittore di esprimere le proprie preoccupazioni più profonde senza ricorrere all’aperta polemica?

«Sì, è una questione di astuzia. Molti approcci alla letteratura hanno implicazioni politiche; nella vita reale, per esempio, ci possono essere questioni spinose o temi critici che non si vuole che vengano affrontati. In quel caso lo scrittore può usare l’immaginazione per isolarle dal mondo reale, o magari esagerare la situazione assicurandosi che sia vivida, intensa e che porti una chiara traccia del mondo reale. Per questo sono convinto che tali limitazioni e censure, in realtà, abbiano un effetto benefico sulla creatività letteraria».



Il suo libro Democracy parla della fine di un’era per la Cina attraverso le sue esperienze personali di ragazzo e di uomo. Ha un che di malinconico. In Occidente crediamo spesso che Progresso equivalga a miglioramento; ma il suo memoir lascia intendere che qualcosa è andato perduto. È così?

«Sì, il memoir a cui si riferisce è intriso della mia esperienza personale e della mia vita quotidiana, nonostante presenti anche qualcosa di immaginato. Anche il tono malinconico è di certo presente. Negli ultimi 30 anni abbiamo assistito a un sensazionale progresso della Cina. Ma ci sono molte cose di cui non siamo soddisfatti. Il paese di fatto è andato avanti, ma il progresso presenta anche un rovescio della medaglia, come i problemi ambientali e il declino dei principi morali. Quindi la malinconia ha una duplice origine: la consapevolezza che la mia giovinezza è ormai finita e, in secondo luogo, la preoccupazione per lo stato attuale delle cose in Cina, soprattutto per quelle di cui non mi sento soddisfatto».
Ultimo aggiornamento: 10 Giugno, 20:22 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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