Ermanno Olmi: «Vivo in un film Ed è lo stesso da sessant'anni»

Domenica 5 Marzo 2017 di Edoardo Pittalis
Ermanno Olmi nella sua casa
1
«È tutto un film, è sempre lo stesso film che dura ormai da sessant’anni. Anche quello che farò. Ho un progetto nuovo, non deve rispondere alle tentazioni del cinema, ma alla tentazione della poesia. I motivi sono ben collocati nella speranza, nel sogno».
A 86 anni Ermanno Olmi continua a sognare?
«Anche stanotte ho fatto un bel sogno, l’ho detto a mia moglie Loredana. Ogni tanto capitano anche sogni premonitori. Il tumore si era fatto riconoscere dopo che io avevo sognato di rivoltarmi in un’acqua di palude, in questo agitarmi nell’imitare delle onde sono caduto dal letto e nel controllo medico ho scoperto il tumore. Mia nonna è stata un faro di intuizione nel dare significati ai sogni. Già al mattino, lei e la zia, che ha rinunciato a sposarsi per starle accanto, interpretavano i nostri sogni. O li dettavano, come quella volta che ero a Siracusa per le riprese del film “I fidanzati” sullo sfondo di saline che sembravano un vetro immobile. Avevo bisogno di pioggia, ma non pioveva mai. Sogno che sulle saline cadeva una pioggia che scatenava l’acqua ferma e si trasformava in temporale. E vedo mia nonna che, al riparo, rideva felice. Erano le 5 del mattino, ho fatto svegliare la troupe perché volevo girare con la pioggia, sapevo che di lì a poco sarebbe accaduto».
E i sogni che richiedono anni?
«Quelli non hanno tempo o età. La Rizzoli mi ha chiesto di scrivere un altro libro, gli ho dato il titolo: “Il destino dell’uomo è nell’infinito”. Il titolo c’è, il libro sogno che ci sarà».
Come era il bambino Ermanno?
«Sono nato in una famiglia contadina, in casa della nonna a Treviglio. A dieci anni ero sfollato a Milano, mio padre lavorava alla Edison come macchinista del trenino che portava il carbone alla stazione Centrale. E morto dopo un bombardamento alla Bovisa: si è alzato e non ha capito più niente, l’hanno ricoverato e in due giorni se n’è andato. Aveva fatto la Grande Guerra come bersagliere tra gli Arditi, non aveva accettato il Fascismo, “le camicie nere erano camicie sporche”, diceva».
E l’adolescente Ermanno?
«A quindici anni anziché a scuola andavo ai giardini pubblici dove c’erano tutti i Lucignolo, ragazzi e ragazze che si godevano insieme questa libertà totale dopo la fine della guerra. A mia madre, rimasta vedova, avevano dato un lavoro alla Edison. Quando andò a sentire i professori, le risposero: “Poverino suo figlio, così precario nella salute!”. Capì e mi fece entrare alla Edison come fattorino».
Nel film “Il Posto”, allora, non ha inventato niente...
«È esattamente quello che ho vissuto, compresa la figura di quel pensionato che tutti i giorni andava in ufficio, si sedeva, faceva gli orari che aveva fatto per tutta la vita».
La passione per il cinema è incominciata in fabbrica?
«Organizzavo spettacoli teatrali che venivano portati dove erano dislocate le centrali elettriche, anche per far sentire i dipendenti meno isolati. Tutto fuori orario e non pagato, così quando mi chiesero cosa volessi in regalo, risposi una macchina da presa 16 millimetri che costava una cifra. Dissero di sì, a patto che facessi documentari su tutti i lavori dell’azienda. Era il momento della svolta dell’Italia».
L’Olmi regista cresce negli anni del boom?
«A Milano ho vissuto un’entusiasmante giovinezza, con una grande euforia che condividevo con Goffredo Parise. Io lo chiamavo Edo, aveva la capacità di cogliere i punti molli della realtà, quelli dove non puoi aggrapparti a niente che possa garantirti di reggerti in piedi. Punti che poi si riveleranno premonitori di come sarebbe andata la società italiana. Una sera inaugurarono il Cinema Capitol, cinema dei ricchi, zona San Babila, 1250 posti. Gente in smoking e toilette da sera, come alla prima della Scala. Con Parise scendiamo una scalinata in marmo che portava ai bagni, c’erano rubinetti mai visti, sapone che profumava appena lo sfioravi. Edo disse sarcastico: “Gnanca i cessi sà più da cessi”. Era il segno di un’Italia che cambiava e non sempre in meglio».
L’amicizia con Mario Rigoni Stern, vicino di casa, e l’amore per Asiago?
«Veramente è lui che è venuto ad abitare accanto, la mia casa c’era prima. Una sera, quando ho girato “I recuperanti”, eravamo ai piedi del bosco e c’era una luce straordinaria, ho raccolto un sasso e l’ho lanciato con tutta la forza che avevo: ‘Mario se un giorno dovessi sposarmi, mettere su famiglia, dove è caduto questo sasso vorrei fare la mia casa’. E così è stato. Amavo ‘Il sergente nella neve’, mi aveva affascinato la capacità di evocare una tragedia senza mai perdere, però, l’idea che in qualsiasi momento c’è la possibilità di sopravvivere. Volevo fare un film dal suo libro, ci abbiamo lavorato a lungo. I russi erano d’accordo, ci mettevano a disposizione un mare di comparse e armi, pianure e neve. Ma era un periodo politicamente difficile e abbiamo dovuto lasciar perdere».
Cosa è Asiago?
«Avevo letto il romanzo di Emilio Lussu sulla guerra nell’Altipiano, poi ci sono venuto a vivere. L’ho preso per spunto del film “Torneranno i prati” del quale sono molto orgoglioso. C’è la scena del giovane tenente che scrive alla madre: “Mia amatissima madre”, che ha un doppio senso, quello della madre naturale e quello della Patria. Quella lettera l’ho sentita mia».
Olmi e la malattia?
«Ci sono due tipi di malattia, una deriva da un’infezione, l’altra è quella che nasce dentro di te. Alla prima perdoni, alla seconda non puoi perdonare. Non perdoni, ma pensi che è anche quello fa parte della vita, che anche il nostro viaggio senza valigie fa parte della nostra vita».
Ultimo aggiornamento: 7 Maggio, 10:37 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci