Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Woody Allen, un Café fin troppo "illuminato"
Hou Hsiao-hsien, l'assassina è da capolavoro

Sabato 1 Ottobre 2016

Il giovane Bobby (un convicente Jesse Einsenberg) va da New York a Hollywood dallo zio produttore in cerca di lavoro. Lascia la famiglia, compreso un fratello gangster. Conosce la segretaria dello zio (Kristen Stewart, non proprio al meglio), se ne innamora, ma scopre che lei è innamorata dello zio, già maritato. Così sposa un’altra ragazza (con lo stesso nome) e quando i due, a distanza di tempo, si ritrovano, scatta la nostalgia e il rimpianto di non aver diviso la vita assieme.
Giunto al 47esimo lavoro, il cinema di Woody Allen continua da tempo ad attorcigliarsi su se stesso, in una voracità circolare, dove temi, situazioni, location, personaggi sembrano chiamarsi da un film all’altro, talmente evidente è la parentela stretta. Qui siamo di nuovo negli anni ’30: nella fiera dei sogni rimangono solo il jazz a dare un senso alla vita; e il cinema, ovviamente.
 “Café society”, che ha aperto l’ultimo festival di Cannes, è un’ulteriore commedia romantica, leggera e non tra le più memorabili, con un intreccio che vive sostanzialmente di contrapposizioni: dualismi tra città (New York vs. Los Angeles, con i loro modi diversi di intendere la vita), donne bionde e brune (come detto: occhio a un’altra “doppia vita” di Veronica), ebrei e cattolici, gangster e bravi ragazzi, duelli dove si nascondono continuamente piccole bugie e segreti. E come sempre tutto è commedia. Anche la morte, come si evince dagli spietati omicidi del fratello, in chiave quasi burlesca.
A sorprendere semmai è l’esordio della fotografia digitale, governato da Vittorio Storaro, che accende una inconsueta (per il cinema alleniano) vividezza sull’immagine, cristallizzando ogni ambiente, non sempre capace di attingere all’ambiguità necessaria e a tratti fin troppo carico di rilevanze cromatiche, dove la luce sembra quasi dominare la scena. Una scelta che lascia piuttosto perplessi.
In definitiva Allen continua a parlarci della (sua) vita, ma in realtà, da tempo ormai, sulla scena affiora sempre più l’idea della morte. Così il suo universo, nonostante il recente vagabondare per l’Europa, resta aggrappato a casa, nella sua New York, perché tutto il suo cinema ha bisogno di punti d’appoggio, sicurezza, conformità e nulla è meglio allora della Grande Mela, autentica forza e paradossale debolezza. Perché Manhattan è sempre Manhattan. E Allen è sempre Allen.
Voto: 2,5/5


THE ASSASSIN: CAPOLAVORI DAL MEDIOEVO CINESE - Una meraviglia imperdibile. Un film di una bellezza accecante, dove ogni inquadratura si spalanca su un mondo lontano, inafferrabile, violento e poetico. Siamo nella Cina del IX secolo, Nie Yinniang ritrova la propria famiglia dopo un lungo esilio, nella provincia di Weibo. È figlia di un generale, iniziata alle arti marziali, ma col tempo si è trasformata in una feroce assassina. Le viene affidata una crudele missione: uccidere un dissidente governatore, suo cugino, l’uomo che un tempo avrebbe dovuto sposare.
Il taiwanese Hou Hsiao-hsien (Leone d’oro con “Città dolente”, 1989), con “The assassin” (Premio per la regia a Cannes 2015) firma un’opera magistrale, ipnotica, folgorante, dove lo splendore dei paesaggi e la forza misteriosa degli intrecci si compattano in un wuxia più icastico che furibondo, attraverso fantastiche sospensioni magiche, colte nella mirabile fotografia di Mark Lee Ping-bin, che apre il film con uno scintillante bianco e nero, per poi espandersi in una spettacolare figurazione del colore. Un capolavoro rapsodico, con un personaggio che fa esplodere le proprie pulsioni e i propri sentimenti, tra la forza e la malinconia, primi piani e piani sequenza, dove il cinema raggiunge la sua espressività più alta.
Voto: 5/5
 

  Ultimo aggiornamento: 03-10-2016 12:51 © RIPRODUZIONE RISERVATA